Il Tribunale ordinario di Siracusa, sezione penale, in funzione di giudice monocratico, esaminati gli atti del procedimento penale n. 2462/14 r.g. Trib., n. 7003/13 R.G.N.R. nei confronti di V.S., nato ad ... il ..., imputato: a) della contravvenzione di cui all'art. 116, comma 13 del C.d.s. perche' si poneva alla guida del motociclo ... tg. ..., senza avere conseguito la patente di guida. b) Della contravvenzione di cui all'art. 75, comma 1, del decreto legislativo n. 159/2011 perche', contravvenendo agli obblighi della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, applicata nei suoi confronti con decreto n. 36/2011 del Tribunale di Siracusa del 20 maggio 2012 (proc. n. 60/10 Reg. Mis. Prev.), violava le prescrizioni di vivere onestamente rispettando le leggi, in quanto commetteva il reato di cui al capo a). Fatti commessi ad Avola (SR) il 22 gennaio 2013. I. Svolgimento del processo Con decreto emesso dal pubblico ministero del 8 novembre 2013 V.S. veniva citato a giudizio dinnanzi al Tribunale di Siracusa all'udienza del 12 novembre 2014 ove la difesa chiedeva un rinvio per valutare l'opportunita' di accedere a rito alternativo; veniva dunque concesso un breve rinvio, previa sospensione dei termini di prescrizione per l'intera durata (pari a giorni trentaquattro), all'udienza del 16 dicembre 2014 anch'essa rinviata stante l'assenza del magistrato titolare. Alla successiva udienza del 16 giugno 2015 veniva aperto il dibattimento ed ammessi i mezzi di prova richiesti, il giudice rinviava all'udienza del 3 febbraio 2016 ove veniva disposta la rinnovazione delle formalita' dibattimentali ai sensi dell'art. 525 del codice di procedura penale stante la diversa composizione dell'organo giudicante e, dopo l'ammissione delle richieste di prova formulate da parte del pubblico ministero e della difesa, veniva disposto rinvio all'udienza del 6 giugno 2016 nel corso della quale disponeva rinvio per istruttoria all'udienza del 7 dicembre 2016 rinviata, per assenza dei testi citati, alla successiva udienza del 3 maggio 2017 ove la difesa dell'imputato dichiarava di aderire alla astensione dalla celebrazione delle udienze proclamata dalle associazioni di categoria; veniva dunque disposto ulteriore rinvio, previa sospensione dei termini di prescrizione per l'intera durata (pari a giorni duecentotrentuno), all'udienza del 20 dicembre 2017 anch'essa rinviata stante l'assenza dei testi giustificati. All'udienza del 20 giugno 2018, veniva disposta la rinnovazione delle formalita' dibattimentali ai sensi dell'art. 525 del codice di procedura penale stante la diversa composizione dell'organo giudicante e, dopo l'ammissione delle richieste di prova formulate da parte del pubblico ministero e della difesa (la quale non prestava il consenso alla rinnovazione mediante lettura), veniva disposto rinvio all'odierna udienza del 9 gennaio 2019 nel corso della quale il giudice sollevava questione di legittimita' costituzionale degli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 «Disposizioni in materia di depenalizzazione a norma dell'art. 2, comma 2, legge 28 aprile 2014, n. 67», ai sensi e per gli effetti dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Di seguito si intende illustrare la prospetta questione di illegittimita' costituzionale ed in particolare la sua: A) non manifesta infondatezza alla specificate stregua delle norme costituzionali e convenzionali quivi appresso; B) rilevanza, trattandosi di disposizioni, della cui costituzionalita' si dubita, che dovranno necessariamente essere applicate nel giudizio a quo. Come noto, in data 6 febbraio 2016 e' entrato in vigore il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 in attuazione dell'art. 2, comma 2, della legge delega del 28 aprile 2014, n. 67 recante «disposizioni in materia di depenalizzazione». All'art. 1 comma 1 del medesimo decreto vengono depenalizzate, per quello che in questa sede interessa, tutte quelle violazioni per le quali e' prevista la sola pena della multa o della ammenda tra cui appunto il reato di cui all'art. 116, comma 15 del decreto legislativo n. 285/1992. La nuova disposizione prevede, limitatamente alla condotta di guida senza patente (comma 5, lettera b), l'applicazione di una « [...] sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 ad euro 30.000». L'art. 8, comma 1, del predetto decreto dispone che «le disposizioni del presente decreto che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso [...]» mentre il successivo art. 9 che «nei casi previsti dall'art. 8, comma 1, l'autorita' giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, dispone la trasmissione all'autorita' amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data». (A) Non manifesta infondatezza della questione La questione di legittimita' costituzionale e' non manifestamente infondata alla stregua dei principi e criteri costituzionali fondamentali e delle specifiche disposizioni della carta costituzionale infra individuate quali «norme parametro» di cui si denuncia la violazione da parte della norma di legge ordinaria sospettata di incostituzionalita'. I°- Violazione dell'art. 76 della Costituzione. Illegittimita' costituzionale degli articoli 8 e 9 del decreto legislativo n. 8/2016 in relazione all'art. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67 - Eccesso di delega i. Il legislatore delegato, pur consapevole dell'assenza di un'espressa delega all'adozione di norme transitorie, ha autonomamente ritenuto di introdurre la disciplina di cui agli articoli 8 e 9, «traendo decisiva ispirazione dalle gia' collaudate disposizioni contenute nel citato decreto legislativo n. 507 del 1999 (articoli 100-102)» (cit. pag. 6 relazione di accompagnamento al decreto recante disposizioni in materia di depenalizzazione). Infatti, le predette disposizioni ripercorrono quasi integralmente il contenuto delle norme transitorie contenute nel decreto legislativo n. 507/1999 («Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell'art. 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205»). Ebbene, la scelta del legislatore delegato impone una riflessione in quanto il decreto legislativo n. 507/1999 cui si fa riferimento e' stato adottato in forza della legge n. 205/1999 che, all'art. 16, comma 1, lettera b), prevede espressamente la delega «ad emanare le norme di attuazione delle disposizioni contenute nella presente legge, le norme di coordinamento con tutte le altre leggi dello Stato, nonche' le norme di carattere transitorio». La legge n. 67/2014, invero, non prevede alcuna delega in materia di disposizioni transitorie specificando, all'art. 2, comma 4 ultima parte che «Nella predisposizione dei decreti legislativi il Governo tiene conto delle eventuali modificazioni della normativa vigente comunque intervenute fino al momento dell'esercizio della delega. I decreti legislativi di cui al comma 1 contengono, altresi' le disposizioni necessarie al coordinamento con altre norme legislative vigenti nella stessa materia». Siamo dunque in presenza di una delega, ma per le sole norme di coordinamento. Manca invece una delega espressa in materia di norme transitorie, necessaria per consentire deroghe alle disposizioni vigenti di rango legislativo. ii. Constatata l'assenza nella legge n. 67/2014 della previsione di una disciplina transitoria, non si puo' non ritenere che tale mancanza debba essere interpretata come segno di una volonta' del delegante di applicare la disciplina dell'art. 2 del codice penale e soprattutto dell'art. 1 della legge n. 689 del 1981 che prevede, in materia di sanzioni amministrative, il divieto di applicazione retroattiva. Del resto, la stessa giurisprudenza di legittimita', di recente anche a sezioni unite, ha stabilito che «Nel caso in cui l'autorita' giudiziaria pronunzi sentenza assolutoria perche' il fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato non ha l'obbligo di rimettere gli atti all'autorita' amministrativa competente a sanzionare l'illecito amministrativo allorquando la normativa depenalizzatrice non contenga norme transitorie analoghe a quelle di cui agli articoli 40 e 41 della legge n. 689/1981 (depenalizzazione), la cui operativita' e' limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non riguarda gli altri casi di depenalizzazione» (cit. Cass. pen. Sez. Un., 29 marzo 2012, n. 25457). Inoltre, in riferimento ai cosiddetti decreti legislativi integrativi e correttivi di precedenti decreti delegati, la Corte costituzionale, nel riconoscere l'ammissibilita' da un punto di vista costituzionale, ha tuttavia precisato che cio' che conta e' «che si intervenga solo in funzione di correzione o integrazione delle norme delegate gia' emanate, e non gia' in funzione di un esercizio tardivo, per la prima volta, della delega "principale"; e che si rispettino pienamente i medesimi principi e criteri direttivi gia' imposti per l'esercizio della medesima delega "principale"» (cfr. cit. Corte costituzionale, n. 206/2001 (dep. 26 giugno 2001; pub. 4 luglio 2001); cfr. Corte costituzionale n. 153/2014 (dep. 4 giugno 2014; pub. 11 giugno 2014). Quindi, anche in riferimento alla ipotesi delle c.d. deleghe bifasiche, attraverso le quali il Governo viene delegato, entro un certo termine, a disporre una nuova disciplina ed entro un termine piu' lungo ad adottare eventuali decreti integrativi e correttivi (come ad esempio avvenuto nella legge delega n. 67/2014, ex art. 2, comma 5), permane il limite della conformita' della disciplina del decreto delegato alle disposizioni della legge delega, senza che siano introdotte norme innovative rispetto alle previsioni di quest'ultima. iii. E' comunque vero che, come stabilito dal Corte costituzionale n. 47/2014, e' consentito al legislatore delegato esercitare una discrezionalita' che travalichi la delega conferita ma cio' solo quando si ponga in modo non divergente rispetto alle finalita' che l'hanno determinata. Nel caso di specie, istituendo un regime transitorio che prevede sanzioni amministrative pecuniarie di una certa entita' (si pensi ad esempio alle sanzioni pecuniarie previste dagli articoli 2 e 3 del decreto legislativo n. 8/2016 che, in alcuni casi, arrivano sino ad un importo pari ad euro 50.000,00= ), il legislatore finisce per contraddire la stessa ratio della legge delega, dichiaratamente promulgata «[...] in ossequio ai principi di frammentarieta', offensivita' e sussidiarieta' della sanzione penale» (cit. p. 1 relazione di accompagnamento). Ebbene, paradossalmente, un imputato per il reato di guida senza patente (come nel caso di specie), a seguito dell'applicazione della disciplina amministrativa transitoria, subirebbe una trattamento in concreto deteriore rispetto a quello penale di cui sarebbe stato eventualmente destinatario in assenza di depenalizzazione (tale concetto verra' meglio sviluppato in seguito). Quello che preme sottolineare in tale sede e' che, in assenza di delega espressa, appare quanto mai dubbio che il delegante possa intervenire con una disciplina che sia in grado di coinvolgere interessi e principi fondamentali, anche di rango costituzionale, dato che ogni sanzione amministrativa, in applicazione di un principio generale quale quello espresso dall'art. 1 della legge n. 689/1981, deve necessariamente informarsi al principio di legalita' secondo cui nessuno puo' essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge. Il decreto legislativo infatti, operando in deroga al tradizionale riparto gerarchico delle fonti di produzione che attribuisce al Parlamento il potere legislativo, acquisisce efficacia solo qualora si muova nel rispetto dei «principi», «criteri direttivi» e soltanto «per il tempo limitato» e per «oggetti definiti» di cui all'art. 76 della Costituzione. Qualora il decreto operi al di fuori di tali limiti, dovra' ritenersi adottato in violazione dello stesso art. 76 della Costituzione, soprattutto qualora tale atto introduca sanzioni in grado di incidere (e pesantemente come vedremo a breve), su situazioni giuridiche soggettive. II° illegittimita' costituzionale dell'art. 8 e 9, decreto legislativo n. 8/2016 per violazione dell'art. 25, comma 2 della Costituzione e/o dell'art. 117, comma 1 della Costituzione in relazione alla norma interposta espressa dall'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. i. In passato, si e' delineato un nutrito dibattito in ordine all'ammissibilita' della trasmissione degli atti da parte del giudice penale all'autorita' amministrativa, a seguito di una sentenza di assoluzione perche' il fatto non costituisce piu' reato per avvenuta depenalizzazione nell'ipotesi in cui la normativa di riferimento non preveda alcuna disciplina transitoria. Secondo un primo orientamento (ex plurimis Cass. Sez. Un, 16 marzo 1994, n. 7394, in C.e.d. n. 197698, a cui hanno aderito una serie di pronunce successive.), occorre escludere valenza generale alle disposizioni transitorie di cui agli articoli 40 e 41 della legge n. 689 del 1981, operanti, invece, solo con riguardo agli illeciti depenalizzati con la stessa legge. Occorre quindi affermare, sempre secondo questo orientamento, l'inapplicabilita' del comma 4 dell'art. 2 del codice penale, sul rilievo che si devono intendere per disposizioni «piu' favorevoli al reo» solo quelle operanti all'interno di precetti esclusivamente penali. Le pronunzie che hanno aderito all'orientamento in esame affermano quindi che - dato il principio di irretroattivita' dell'illecito amministrativo, sancito dalla legge n. 689 del 1981, art. 1 - al venir meno della sanzione penale si accompagna di regola la impossibilita' di applicare la nuova sanzione amministrativa. Secondo l'opposto orientamento (ex plurimis Cass. Pen. 25 gennaio 2006, n. 7180 in C.e.d., n. 233577) a seguito della trasformazione di un illecito penale in illecito amministrativo - in assenza di disciplina transitoria - deve sempre essere disposta la trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa competente, in forza della disposizione di carattere generale di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, art. 41. (1) Cio' in quanto gli illeciti penali trasformati in illeciti amministrativi non possono restare sottratti a qualsiasi sanzione, ma in considerazione della ratio legis che e' quella di attenuare, non gia' di eliminare, la sanzione per un fatto che rimane illecito - dovra' trovare comunque applicazione quella amministrativa. Il primo orientamento ha trovato conferma nella sentenza Cass. pen., Sez. un., 29 marzo 2012, n. 25457 (Cass. pen., Sez. un., 29 marzo 2012, n. 25457, in dir. proc. 2012, p. 1211) - a cui ha fatto seguito la recente Cass. pen. 9 settembre 2015, n. 44132 - con cui si e' affermato che gli articoli 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 non sono norme generali di inquadramento valide per tutti i futuri casi di depenalizzazione e che il principio di retroattivita' della legge piu' favorevole, non essendo stato recepito dall'art. 1, legge n. 689 del 1981, non e' estensibile alla disciplina della «successione» dell'illecito amministrativo rispetto all'illecito penale. Per poter superare l'autonomo principio d'irretroattivita', sono invece necessarie apposite norme affidate alla discrezionalita' del legislatore ordinario (pur sempre nel rispetto del principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione). Ad avviso di tale orientamento quindi, non puo' essere condivisa la cd. «teoria della persistenza dell'illecito» tra quello penale e quello amministrativo, da considerarsi quest'ultimo come introdotto ex novo. Inoltre, in caso di una nuova e diversa valutazione discrezionale del legislatore non sembra possa aprioristicamente prospettarsi una non giustificabile disparita' di trattamento in violazione dell'art. 3 della Costituzione per il solo fatto che coloro che hanno trasgredito un determinato precetto penale rimangono esenti da qualsiasi sanzione a seguito di depenalizzazione. ii. Il decreto legislativo n. 8/2016 delinea una specifica disciplina transitoria che prevede l'applicazione retroattiva della nuova sanzione amministrativa in ipotesi di guida senza patente. Sebbene la questione risulti diversa da quella esaminata dalla pregressa giurisprudenza (in questo caso e' infatti prevista una disciplina transitoria), questa dovra' comunque confrontarsi con un orientamento consolidato in seno agli organi di giustizia internazionale che effettua una distinzione fattuale sulla natura delle varie sanzioni. La Corte europea dei diritti dell'uomo infatti, nell'applicazione e interpretazione dei principi di legalita', irretroattivita' e di colpevolezza, espressi nell'art. 7, comma 1 della Convenzione, (2) ha mutato la nozione di pena cosi' come stabilita nel nostro ordinamento nazionale. In particolare, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha individuato degli autonomi criteri di qualificazione e definizione della nozione di materia penale, reato e pena (Engel e altri contro Paesi Bassi; Grande Stevens ed altri contro Italia sentenza 4 marzo 2014,). In sostanza, secondo tale orientamento, viene introdotta una modalita' di individuazione della natura penale della sanzione di carattere sostanziale e non meramente formale-nozionistica come quella assunta nel nostro ordinamento nazionale. Tali criteri sono: a) qualificazione dell'illecito operata dal diritto interno: Tale qualificazione riveste pero' solo carattere formale e di valore relativo in quanto la Corte europea dei diritti dell'uomo deve supervisionare sulla correttezza di tale qualificazione alla luce degli altri fattori indicativi del carattere «penale»; b) natura dell'illecito: deve essere considerata la natura sostanziale dell'illecito commesso, quindi, se si sia di fronte ad una condotta in violazione di una norma diretta alla protezione di un ordinamento e della societa' o se la norma tutela beni giuridici della collettivita' in correlazione alle rispettive legislazioni dei diversi Stati contraenti. In linea di principio, vengono considerate penali le norme che, indirizzandosi ad una generalita' di destinatari (cfr. Anghel c. Romania, sentenza 4 ottobre 2007), risultano caratterizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo; c) gravita' della sanzione che impone di verificare l'entita' della sanzione concretamente inflitta e le ripercussioni che essa ha per il soggetto che la subisce (cfr. Lauko c. Slovacchia, sentenza 2 settembre 1998). In sostanza, il rango costituzionale del principio d'irretroattivita' delle sanzioni punitive amministrative presuppone l'omogeneita' della natura dell'illecito penale e di quello (punitivo) amministrativo convergenti nell'identica «materia penale» come delineata, altresi', dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (si tratta di un concetto di omogeneita' che il legislatore delegato ha bene in mente cosi' come si puo' vedere nella stessa relazione di accompagnamento). Caso emblematico nel quale si e' fatta applicazione dei predetti criteri e' quello deciso dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 4 marzo 2014 (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e della liberta' fondamentali, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia) ove i ricorrenti, dopo essere stati sanzionati con l'applicazione di sanzioni amministrative di carattere pecuniario dalla Consob, sono stati anche rinviati a giudizio per gli stessi fatti, puniti dal diritto nazionale anche penalmente. Ebbene la Corte europea dei diritti dell'uomo, applicando i criteri elaborati dalla celebre sentenza del 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, ha affermato che il processo innanzi alla Consob e' di natura amministrativa ma che le sanzioni inflitte possono essere considerate come penali, sia per l'eccessiva severita' delle stesse che per le loro ripercussioni sugli interessi del condannato. Di fatti, la Corte ha affermato che le sanzioni amministrative - essendo dirette a garantire l'integrita' dei mercati finanziari e a mantenere la fiducia del pubblico nella sicurezza delle transazioni, tutelando gli investitori e l'efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici - sono destinate a salvaguardare interessi generali. Inoltre, le sanzioni pecuniarie inflitte mirano essenzialmente a punire per impedire la recidiva, perseguendo cosi uno scopo preventivo anziche' riparatorio di un danno di natura finanziaria. In punto di gravita' della sanzione, invece, la norma amministrativa prescrive la possibilita' di infliggere una sanzione pecuniaria fino ad euro 5.000.000, massimo che puo' addirittura essere triplicato o elevato fino a dieci volte il prodotto o il profitto ottenuto grazie al comportamento illecito. iii. L'applicazione dei cd. «criteri Engel» sopra esposti, nel caso di specie induce a ritenere che le nuove sanzioni previste dal decreto legislativo n. 8/2015 e in particolare per quello che rileva, quella di cui all'art. 1, nonostante siano state ideate a seguito della depenalizzazione di alcuni reati e rechino la nozione di «sanzioni amministrative» -, siano sempre qualificabili in riferimento a determinati aspetti - quali ad esempio la ritenuta applicabilita' dell'art. 25, comma 2 della Costituzione e dell'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e della liberta' fondamentali - sostanzialmente di natura «penale». Per quanto riguarda la natura dell'illecito oggetto del presente scrutinio, si rileva che anche la sanzione di cui all'art. 1, comma 1 del decreto legislativo n. 8/2016 e' rivolta ad una generalita' di destinatari, essendo mossa da una finalita' general preventiva - e non certo riparatoria, essendo volta a punire chiunque circoli senza una patente di guida valida - tesa a garantire il rispetto di interessi costituzionalmente garantiti quali la tutela della pubblica sicurezza e della incolumita' pubblica, assicurati dall'espletamento di una procedura amministrativa volta ad attribuire i titoli abilitativi alla guida solo a coloro i quali risultino idonei da un punto di vista sia psico-fisico oltreche' che tecnico (tramite il superamento di apposito esame di guida). Per quanto attiene invece la gravita' della sanzione, si osserva che la sanzione amministrativa irrogabile risulta sicuramente piu' afflittiva di quella in concreto applicabile in sede penale antecedentemente all'avvenuta depenalizzazione. In tale ultima sede vi e' infatti la possibilita' per l'imputo di beneficiare di istituti che consentirebbero la non punibilita' o la estinzione del reato o della pena scongiurando l'applicazione della sanzione. Si tratta ad esempio dell'effetto dell'estinzione del reato a seguito di esito positivo della sospensione del processo con messa alla prova (di cui agli articoli 168-bis, 168-ter e 168-quater del codice penale e agli articoli 464-bis, 464-ter, 464-quater, 464-quinquies, 464-sexies, 464-septies, 464-octies e 464-novies del codice di procedura penale) o della sospensione condizionale della pena (articoli 163 s.s. del codice penale) ovvero l'estinzione della pena a seguito dell'esito positivo della misura di affidamento in prova al servizio sociale (ex art. 47, legge n. 354 del 26 luglio 1975) ovvero della non punibilita' per particolare tenuita' del fatto (art. 131-bis del codice penale). Di fatti, in riferimento alla disciplina di ciascun istituto sopra richiamato non si ravvede alcun elemento ostativo per la loro applicazione in relazione alla specifica tipologia di reato contestato nel caso di specie. Il massimo edittale dell'art. 116, comma 15 del decreto legislativo n. 285/1992 ante depenalizzazione e' compatibile con la pena massima prevista per l'applicazione dell'art. 168-bis del codice penale (che prevede una pena edittale detentiva sola o congiunta a quella pecuniaria non superiore nel massimo a quattro anni), dell'art. 168 del codice penale (che prevede una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa, concretamente inflitta non superiore a due anni), dell'art. 131-bis del codice penale (che prevede una pena detentiva, sola o congiunta a quella pecuniaria, non superiore nel massimo a cinque anni) e dell'art. 47, legge n. 354 del 26 luglio 1975 (che prevede una pena detentiva concretamente inflitta non superiore a tre anni). Al fine di dimostrare la maggiore afflittivita' della nuova sanzione amministrativa rispetto alla previgente normativa penalistica - e quindi ai fini di qualificare l'art. 1, comma 1 e 5 del decreto legislativo n. 8/2016 quale norma sostanzialmente di carattere penale alla luce dei predetti criteri utilizzati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - si rileva che in punto di trattamento sanzionatorio, la relazione di accompagnamento asserisce che «Circa le nuove cornici edittali delle sanzioni amministrative, sia con riguardo ai reati del codice penale (di cui all'art. 2) che agli altri casi di depenalizzazione (di cui all'art. 3), si evidenzia di aver fissato i seguenti limiti - salve diverse specifiche previsioni sulla base di un criterio generale ispirato a principi di proporzione, ragionevolezza e coerenza sistematica» (cit. pagine 3 e 4 della relazione di accompagnamento). Tale trattamento sanzionatorio trova applicazione anche in riferimento a fatti commessi antecedentemente alla entrata in vigore del decreto legislativo n. 8/2016 seppur con il «temperamento» previsto dalla previsione indicata dall'art. 8, comma 3 del predetto decreto, secondo cui «Ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non puo' essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all'art. 135 del codice penale. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie». Nell'ottica del legislatore, la «valvola di sfogo» in grado di garantire la legittimita' costituzionale della normativa in commento risiede nel tentativo di evitare che la sanzione amministrativa pecuniaria non sia superiore a quella che avrebbe potuto essere applicata in sede penale, anche in applicazione dei criteri di ragguaglio di cui all'art. 135 del codice penale. In sostanza, secondo il legislatore delegato, la previsione del regime transitorio di cui all'art. 8 del decreto legislativo n. 8/2016 sarebbe perfettamente in grado di salvaguardare «[...] il principio di retroattivita' in mitius, pienamente realizzato dall'applicazione retroattiva delle piu' favorevoli sanzioni amministrative in luogo di quelle originarie penali, sempre che sia garantito, come fa il comma 3 dell'art. 8 del decreto, che la nuova sanzione sia irrogata in un ammontare non superiore al massimo di quella originaria» (cit. pag. 6 e 7 relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 8/2016). Cio' significa (peraltro il Governo ne' da atto nella predetta relazione), che il legislatore delegato e' perfettamente consapevole dell'orientamento «autonomista» formatasi in seno alla Corte europea dei diritti dell'uomo e alla Corte costituzionale (si richiama nuovamente la sentenza n. 104/2014 della Consulta) in merito alle sanzioni cd. «intrinsecamente penali». Tuttavia afferma anche che, muovendo dal concetto di identica «materia penale», la depenalizzazione di reati «degradati» ad illeciti amministrativi darebbe luogo ad una vicenda sostanzialmente di successione di leggi, nella quale dovrebbe trovare attuazione il principio di retroattivita' in mitius in favore delle ritenute piu' favorevoli sanzioni amministrative. Quindi, il punto dirimente, e' che il legislatore delegato ha considerato, ragionando esclusivamente in astratto, le nuove sanzioni amministrative come norme piu' favorevoli rispetto alle originarie penali, sempre che la nuova sanzione sia irrogata in un ammontare non superiore al massimo di quella originaria. Ebbene, tali «accortezze» appaiono tutt'altro che in grado di garantire il rispetto dei principi di proporzionalita' e coerenza. Nel caso di specie l'imputato, in caso di eventuale sentenza di condanna, avrebbe potuto beneficiare di istituti quali quello della sospensione condizionale della pena ovvero della non punibilita' per particolare tenuita' del fatto ovvero dell'affidamento in prova al servizio sociale che, in concreto, gli avrebbero consentito di non subire l'applicazione di alcuna pena per non punibilita' del fatto o estinzione del reato o della pena. A seguito dell'avvenuta depenalizzazione, l'imputato si trovera' invece presumibilmente destinatario di una sanzione amministrativa di almeno euro =5.000,00= , senza che il predetto decreto in materia di depenalizzazione introduca istituti «alternativi» alla applicazione della sanzione pecuniaria. Vale la pena di ricordare che la forte potenzialita' afflittiva della pena ha, in diverse materie, oramai raggiunto anche l'apparato sanzionatorio amministrativo. La stessa Corte costituzionale ha sottolineato il fatto che, nell'individuare beni giuridici meritevoli di tutela, le sanzioni amministrative possono avere efficacia pari alle sanzioni penali, se non, a volte, anche maggiore. A mero titolo esemplificativo, in materia ambientale, ha affermato che «la repressione penale non costituisce, di per se', l'unico strumento di tutela di interessi come quello ambientale, ben potendo risultare altrettanto e perfino piu' efficaci altri strumenti, anche sanzionatori [...]» (cfr. cit. Corte costituzionale sentenza n. 456/1998. Successivamente, nello stesso senso, cfr. Corte costituzionale ordinanze numeri 193 e 267 del 1999; 86 e 150 del 2001). Occorre, in sostanza, non limitarsi ad una concezione meramente «quantitativa» del rapporto intercorrente tra sanzione penale e sanzione amministrativa secondo cui l'illecito amministrativo reprime fatti che arrecano una minore offesa al bene tutelato rispetto a quello penale ma anche e soprattutto, ad una dimensione «qualitativa» che faccia specifico riferimento anche alla situazione processuale e al contesto concreto in cui tali sanzioni si collocano. Di fatti, nel caso di cui ci occupiamo, l'operativita' del principio di retroattivita' in mitius non viene assolutamente garantita in concreto, stante l'assenza nel procedimento sanzionatorio amministrativo di alcuni istituti operanti, invece, in sede penale che consentirebbero la non punibilita' o l'estinzione della pena o del reato. In altri termini, l'applicazione della nuova sanzione amministrativa comporterebbe, in concreto, una sanzione maggiormente afflittiva di quella irrogabile in astratto all'imputato qualora non fosse avvenuta alcuna depenalizzazione. Del resto, la dizione «della pena originariamente inflitta» riportata nell'art. 8, comma 3 del decreto legislativo n. 8/2016 si riferisce alla sentenza penale o decreto di condanna definitivi e non alla fattispecie in esame ove la declaratoria di assoluzione perche' il fatto non costituisce piu' reato ex art. 129 del codice penale avviene solo in corso di giudizio. Nel decreto impugnato non si fa riferimento, oltre che alla pena inflitta, anche alla pena prevista per il reato. In questo caso occorrera' fare riferimento, almeno operando una interpretazione costituzionalmente orientata del gia' citato art. 8, comma 3, solo al massimo edittale astrattamente previsto dal reato depenalizzato. In sostanza, l'unica interpretazione che consenta di conferire un qualche significato al riferimento al «massimo della pena» e' quella che intende il participio «inflitta» come sinonimo di «comminata» in astratto dal legislatore: e' sin troppo evidente, infatti, che rispetto ad una pena ormai determinata in concreto non ha alcun senso parlare di «massimo» o di «minimo». La disposizione non operera' dunque in chiave limitativa della potesta' sanzionatoria della pubblica amministrazione ogniqualvolta la pena complessiva, tenendo conto del criterio di ragguaglio di cui all'art. 135 del codice penale, superi i l'importo massimo irrogabile in sede amministrativa; mentre avra' pratico effetto in tutti i casi in cui, anche in esito alla conversione, la pena originaria sia inferiore a tale ultimo importo (nel caso di specie, l'originario reato prevedeva l'ammenda nel massimo ad euro 9.032,00 per cui si deve ritenere che questo sia, ai sensi dell'art. 8, comma 3 del decreto legislativo n. 8/2016 cosi come sopra interpretato, l'importo massimo irrogabile anche in sede amministrativa). Ad ogni modo, ribadendo quanto gia' detto, anche qualora fosse irrogata una sanzione di importo non superiore ad euro 9.032,00 (essendo questo il massimo edittale previsto dal reato di cui all'art. 116, comma 15 Cod. Str.) risulterebbe comunque applicato un trattamento deteriore rispetto a quello che l'imputato avrebbe potuto usufruire in sede penale stante l'applicabilita' in concreto degli istituti con finalita' «deflattive» piu' volte richiamati. Da un lato, non e' irragionevole pensare che una sanzione amministrativa pecuniaria contenuta nei limiti di cui all'art. 8, comma 3 del decreto legislativo n. 8/2016 possa, in linea di principio, essere piu' favorevole rispetto ad una pena pecuniaria di pari importo, non potendo in alcun modo essere convertita - a differenza di quest'ultima - in pena limitativa o, in ultima istanza, privativa della liberta' personale in caso di inadempimento. Dall'altro lato, pero', la concreta incidenza sul patrimonio di una sanzione pecuniaria amministrativa da 5.000 a 9.032,00 (secondo il criterio limitativo di cui all'art. 8, comma 3, decreto legislativo n. 8/2016) e' certamente assai maggiore di quella prodotta da una ammenda, pena la quale non avrebbe avuto concreta incidenza sul patrimonio dell'imputato in quanto - alla stregua dei parametri di cui all'art. 135 del codice penale - si sarebbe comunque attestata al di sotto dei due anni di pena detentiva, essendo quindi del tutto prevedibile che al condannato fosse concessa la sospensione condizionale - o garantito l'accesso ad altri istituti comunque destinati a paralizzare l'esecuzione della pena pecuniaria. Vi e' peraltro da aggiungere che colui il quale ha commesso il reato di guida senza patente - ante depenalizzazione - si e' determinato ad agire (ferma ovviamente l'eventuale fondatezza nel merito dell'ipotesi di reato contestata) sulla base di una sanzione penale e di un regime processuale penale che, successivamente al 6 febbraio 2016 (data di entrata in vigore del predetto decreto), non risulta piu' applicabile. Con il decreto legislativo in esame varia sia il regime sanzionatorio che quello processuale - dato che in sede amministrativa non sono disciplinati istituti previsti invece in sede penale che consentono la non punibilita' o l'estinzione del reato o della pena. Alla luce di quanto sopra detto si deve ritenere che, alla stregua della interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con riferimento alla nuova sanzione amministrativa di cui all'art. 1, commi 1 e 5 del decreto legislativo n. 8/2016, solo formalmente amministrativa ma di fatto penale, debbano trovare applicazione i principi di legalita' e di irretroattivita' delle sanzioni penali. iv. La Corte costituzionale con le sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007, e n. 239, 311 e 317 del 2009 ha affermato che «nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna (nel caso di specie gli articoli 8 e 9 del del decreto legislativo n. 8/2016) e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove cio' sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune [...] deve sollevare la questione di costituzionalita' con riferimento al parametro dell'art. 117, primo comma della Costituzione, ovvero anche dell'art. 10, primo comma, della Costituzione, ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta». Alla luce di tale giurisprudenza costituzionale, assume ruolo centrale la sentenza della Consulta n. 196 del 2010. La Corte costituzionale ha infatti affermato che dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo formatasi sull'interpretazione degli articoli 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (si veda da ultimo la decisione Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Stevens comma Italia del 4 marzo 2014), si ricava «il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivoafflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Detto principio e' peraltro desumibile anche dall'art. 25, secondo comma della Costituzione, "il quale - data l'ampiezza della sua formulazione ("Nessuno puo' essere punito [...]") - puo' essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale [...], e' applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti gia' vigente al momento della commissione del fatto sanzionato». Di recente, la Consulta con la sentenza n. 104/2014 ha ribadito i concetti sinora esposti dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art. 18 della legge regionale Valle d'Aosta n. 5 del 2013 «nella parte in cui stabilisce che le disposizioni modificate o inserite da tale legge, le quali prevedono sanzioni amministrative, si applicano ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore». Cio' in quanto la disposizione censurata, prevedendo la sanzione amministrativa anche per comportamenti posti in essere anteriormente alla sua entrata in vigore, viola il principio di irretroattivita' sancito dall'art. 25 della Costituzione. Tale conclusione e' nata traendo spunto proprio dalla gia' citata sentenza n. 196 del 2010 della Consulta secondo cui tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. A tal proposito, sono di particolare interesse, ai nostri fini, anche alcune recenti pronunce del tribunale amministrativo regionale del Lazio (TAR Lazio, Roma, sez. III-ter, 15 novembre 2012, numeri 679/2013, 681/2013 e 682/2013, depositate in data 21 gennaio 2013), che fanno esplicito riferimento all'art. 25 della Costituzione per statuire l'illegittimita' di disposizioni sanzionatorie retroattive. Tale organo giurisdizionale, considerando che non puo' essere ammesso nel nostro sistema ordinamentale un regime sanzionatorio di portata afflittiva con efficacia retroattiva, il quale, oltre ad essere contrario ai canoni e principi che sorreggono i procedimenti sanzionatori, sarebbe, oltretutto, privo di alcun effetto deterrente, ha affermato che «le sanzioni amministrative, siano esse meramente pecuniarie, ovvero siano dotate di un carattere afflittivo che prescinde dall'effetto ripristinatorio della situazione compromessa dalla violazione e/o dalla eventuale riparazione dell'interesse leso, hanno come scopo primario quello di punire il contravventore, nel presupposto che non ripeta piu' la condotta antigiuridica e, dunque, devono essere assoggettate alle regole comuni che governano le sanzioni penali, a cominciare dal divieto di retroattivita' di cui all'art. 25 della Costituzione» (TAR Lazio, Roma, sez. III-ter, 21 gennaio 2013, n. 682). Tali principi sono ribaditi anche dalla giurisprudenza convenzionale. Di fatti, dalla ritenuta natura «penale» della sanzione in esame discende, ad avviso di questo giudice, l'applicabilita' alla stessa del principio di legalita' penale di cui all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Detto principio (cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 17 settembre 2009 - Ricorso n. 10249/03 - Scoppola c. Italia), occupa un posto fondamentale nel sistema di tutela della Convenzione, e deve essere interpretato e applicato in modo da garantire una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (S.W. e C.R. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, §34 e §32 rispettivamente, serie A numeri 335-B e 335-C, e Kafkaris, gia' cit., §137). L'art. 7 §1 della Convenzione non si limita a vietare l'applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell'imputato. Esso sancisce anche, piu' in generale, il principio della legalita' dei delitti e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege). Se, in particolare, e' vietato estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, precedentemente, non costituivano dei reati, esso impone inoltre di non applicare la legge penale in maniera estensiva a svantaggio dell'imputato, ad esempio per analogia (v., tra le altre, Coëme e altri c. Belgio, numeri 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, §145, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali 2000-VII). L'esigenza avvertita a che la legge definisca chiaramente i reati e le pene che li reprimono sara' soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio puo' sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente e, se necessario, con l'aiuto dell'interpretazione che ne viene data dai tribunali, quali atti e omissioni implicano la sua responsabilita' penale (Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, §52, serie A n. 260-A, Achour, gia' cit., §41, e Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia, n. 75909/01, §107, 20 gennaio 2009). La Corte ha dunque il compito di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l'atto che ha dato luogo all'azione penale e alla condanna, esisteva una disposizione legale che rendeva l'atto punibile, e che la pena imposta non ha superato i limiti fissati da tale disposizione (Coëme e altri, gia' cit., §145, e Achour, gia' cit., §43). Tali principi, costituenti l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo, non possono essere disattesi: ed invero «le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali [...] devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo» (sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n. 39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007). Ebbene, ad avviso del giudice a quo e per le ragioni gia' evidenziate, la natura di garanzia convenzionale del principio irretroattivita' della legge unitamente alla nozione di «pena» contenuta nell'art. 7 §l della Convenzione e all'inclusione dell'illecito amministrativo e delle relative sanzioni nella materia penale ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, comporta il contrasto con l'art. 25, comma 2 e con l'art. 117 della Costituzione - per violazione dei parametri interposti rappresentati dall'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - dell'art. 8, comma 1 e 3 e dell'art. 9, comma 1 del decreto legislativo n. 8/2016 che impongono la trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa competente per l'eventuale irrogazione della sanzione amministrativa applicabile anche per violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del predetto decreto. (B) Impossibilita' di operare una interpretazione conforme degli articoli 8 e 9 del decreto legislativo n. 8/2016 Nell'attivita' interpretativa che gli spetta ai sensi dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione, il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest'ultima (sentenze n. 68 del 2017, n. 276 e n. 36 del 2016). In tale attivita', egli incontra, tuttavia, il limite costituito dalla presenza di una legislazione interna di contenuto contrario alla Convenzione europea pere la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali: in un caso del genere verificata l'impraticabilita' di una interpretazione in senso convenzionalmente conforme, e non potendo disapplicare la norma interna, ne' farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la Convenzione e, pertanto, con la Costituzione, alla luce di quanto disposto dall'art. 117, primo comma, della Costituzione - deve sollevare questione di legittimita' costituzionale della norma interna, per violazione di tale parametro costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 150 del 2015, n. 264 del 2012, n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009). Ora, la disciplina oggetto di scrutinio da cui consegue l'applicabilita' retroattiva delle nuove sanzioni amministrative per violazioni anteriormente commesse rispetto alla entrata in vigore del decreto sulle depenalizzazioni da cui discende l'obbligo del giudice penale di trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa competente risulta essere, applicando i gia' citati «criteri Engel» che consentono di estendere - qualora ne ricorrano i presupposti come nel caso di specie alla luce di quanto gia' detto nel punto A) - alla sanzione formalmente amministrativa (ma «sostanzialmente penale» per la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, nell'interpretazione della Corte di Strasburgo) le garanzie convenzionali, appare porsi manifestatamente in contrasto sia con la previsione di cui all'art. 25, comma 2 della Costituzione che con l'art. 117, comma 1 della Costituzione in relazione all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Dalla chiara indicazione letterale degli articoli 8 e 9 del decreto legislativo n. 8/2016, appare palese l'impossibilita' di compiere una interpretazione che sia costituzionalmente che convenzionalmente conforme in grado di fugare ogni dubbio sulla manifesta fondatezza della questione di legittimita' costituzionale. In sostanza, l'art. 7 della Convenzione cosi' come interpretato dalla stessa Corte, non puo' non scontrarsi apertamente con il dato normativa interno di segno contrario: in tale caso la soluzione dell'antinomia deve appunto essere rimessa alla Corte costituzionale secondo l'insegnamento delle sentenze gemelle del 2007. (3) (C) Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale i. I procedimenti per i quali e' stata esercitata l'azione penale alla data di entrata in vigore del decreto (dunque, entro il 6 febbraio 2016), quale quello di specie, sono disciplinati dall'art. 9, comma 3 secondo cui «Se l'azione penale e' stata esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell'art. 129 del codice di procedura penale, sentenza inappellabile perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1» che comporta, per i reati di cui alla depenalizzazione prevista ai sensi dell'art. 1, tra cui quello di cui all'art. 116, comma 15 Cod. str., la trasmissione all'autorita' amministrativa competente. A tal proposito, in applicazione dell'art. 8 del decreto in commento, e' stato predisposto un peculiare regime transitorio che prevede l'applicazione della sanzione amministrativa anche per le violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso. In virtu' della trasmissione degli atti da parte dell'Autorita' giudiziaria all'Autorita' amministrativa, quest'ultima sara' tenuta a notificare gli estremi della violazione all'odierno imputato entro il termine di novanta giorni dalla data di ricezione. La rilevanza della questione deriva dal fatto che, una volta dichiarata l'illegittimita' costituzionale degli articoli 8 e/o 9 del decreto legislativo n. 8/2016, l'imputato non sara' punibile ne' penalmente (in virtu' dell'avvenuta depenalizzazione) ne' amministrativamente, non essendo piu' obbligatoria la trasmissione degli atti da parte dell'Autorita' giudiziaria a quella amministrativa ne' l'applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative. ii. Diviene quindi fondamentale comprendere il valore effettivo del regime transitorio delineato dall'art. 8, decreto sulle depenalizzazioni e individuare lo spettro applicativo del concetto «definizione del giudizio» di cui all'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, il cui comma 2, secondo periodo dispone che «L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale [...], dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso». In dottrina si sono sviluppate due contrapposte tesi. Secondo la prima il concetto di rilevanza deve essere inteso come sinonimo di «mera applicabilita'», mentre secondo la seconda, nel senso di «necessaria influenza» sul giudizio a quo anche se non necessariamente sul risultato finale, essendo sufficiente l'esistenza di un'influenza sul modo di decidere. Detto cio', si segnala che il giudizio puo' dirsi definito soltanto dopo l'emissione di un provvedimento conclusivo emesso dal giudice, nel caso in esame, una sentenza di assoluzione perche' il fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato, ex art. 129 del codice di procedura penale. Come prescritto dall'art 546, comma 1, lettera f) del codice di procedura penale, tra i requisiti della sentenza vi e' anche - pena nullita' (art. 546, comma 3 del codice di procedura penale) - il dispositivo. Ebbene, e' proprio nel dispositivo che viene indicata la trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa competente per l'irrogazione di un'eventuale sanzione, proprio in forza dell'applicazione retroattiva delle disposizioni del decreto sulle depenalizzazioni. Sembra evidente, quindi, l'influenza del giudizio di costituzionalita' su quello dal quale proviene la questione, in termini di pregiudizialita'. Di fatti, gli articoli 8 e 9 del decreto legislativo n. 8/2016 appaiono rilevanti nel giudizio penale in quanto della loro applicazione se ne da' conto proprio nel dispositivo che costituisce parte integrante della sentenza emessa dal giudice penale. La definizione del giudizio dipende, quindi, anche dall'applicazione necessaria delle predette norme in quanto, diversamente opinando, si otterrebbe un dispositivo diverso (recante la sola assoluzione perche' il fatto non costituisce piu' reato) che ostacolerebbe, peraltro, l'attuazione delle stesse finalita' di politica legislativa propugnate dal legislatore delegato. iii. Del resto, la rilevanza della prospetta questione e' stata gia' affrontata dalla Consulta nella sentenza n. 109/2017 la quale esprimendosi per una pronuncia di inammissibilita' della paventata questione di illegittimita' costituzionale, in rapporto agli articoli 3, 25, comma 2, e 27 della Costituzione, degli articoli 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto legislativo n. 8/2016, in riferimento all'avvenuta depenalizzazione del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali di cui all'art. 2, comma 1-bis del decreto-legge n. 463/1983 laddove l'importo omesso non sia superiore a 10.000 euro per ogni annualita', ha affermato che, sebbene siano inammissibili per difetto di rilevanza nel giudizio a quo le censure concernenti la misura della nuova sanzione amministrativa pecuniaria applicabile all'illecito depenalizzato in forza dell'art. 3, comma 6, del medesimo decreto legislativo n. 8/2016 in quanto di tale ultima norma il giudice a quo non deve evidentemente fare applicazione (spettando semmai al giudice dell'opposizione contro la sanzione irrogata dall'autorita' amministrativa sollevare alla Corte simili questioni), tale difetto di rilevanza non sussiste, invece, per quanto concerne la questione relativa all'applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative, dal momento che il giudice a quo si trova sin d'ora a dover applicare l'art. 9 del decreto, che gli impone la trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa sul presupposto - appunto - della retroattivita' delle nuove sanzioni, stabilita dal precedente art. 8. iv. In ultimo si osserva che l'art. 9, comma 1 del decreto legislativo n. 8/2016 precisa che nei casi previsti dall'art. 8, comma 1 del medesimo decreto l'Autorita' giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, disponga la trasmissione all'autorita' amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa. Nel caso di specie, il reato di cui al capo a) si e' consumato in data 22 gennaio 2013 e stante la sua natura contravvenzionale, risulta essersi prescritto-conteggiando i periodi di sospensione del decorso della prescrizione disposti all'udienza del 12 novembre 2014 sino alla successiva udienza del 16 dicembre 2014 e all'udienza del 3 maggio 2017 sino alla successiva udienza del 20 dicembre 2017 per complessivi giorni duecentosessantacinque - in data 14 ottobre 2018. Tuttavia, come risulta dal tenore letterale del gia' richiamato art. 9, comma 1 - interpretazione invero confermata anche dalla recente Cass. pen. Sez. III, sent. 16 giugno 2017, n. 30201 - l'obbligo di trasmissione di copia degli atti all'Autorita' amministrativa per l'irrogazione della sanzione in relazione alle violazioni prescritte disciplinato dal decreto legislativo n. 8 del 2016, art. 8, comma 1 e art. 9, comma 3, ricorre solo per quelle violazione per le quali la prescrizione e' maturata alla data di entrata in vigore (nel caso di specie il 6 febbraio 2016) del decreto medesimo (cfr. art. 9 «l'autorita' giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto»). Di fatti, se la causa estintiva sopravviene alla depenalizzazione del fatto, il giudice deve dichiarare che questo non e' piu' previsto dalla legge come reato, essendosi verificata, «in primis» la decadenza dalla giurisdizione che inibisce ogni diversa pronuncia (Sez. 3, n. 10238 del 25 ottobre 1996, Cantagalli, Rv. 206529) e cio' a prescindere dal fatto se la pronuncia di non doversi procedere risulti in concreto piu' favorevole della declaratoria che il fatto non e' previsto dalla legge come reato in quanto in esito a quest'ultima la condotta rimarrebbe pur sempre perseguibile in sede amministrativa (cfr. Cassazione Sez. 3, n. 20892 del 11 gennaio 2017, Rv. 270513). Ebbene i termini di prescrizione del reato di cui al capo a) non erano decorsi alla data dell'entrata in vigore del decreto legislativo pertanto, in ragione di siffatta previsione derogatoria, anche nel caso di violazioni commesse in tempo anteriore all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 8 del 2016 si imporrebbe, ai sensi dell'art. 9, la trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa competente a sanzionare l'illecito amministrativo ai sensi dell'art. 7 del decreto legislativo n. 8/2016; da qui la ritenuta rilevanza della questione prospettata. (1) Il primo periodo di tale disposizione, rubricata «Norme processuali transitorie», dispone che «L'autorita' giudiziaria, in relazione ai procedimenti penali per le violazioni non costituenti piu' reato, pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, se non deve pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di proscioglimento, dispone la trasmissione degli atti all'autorita' competente». (2) Tale norma, al primo comma, dispone che «Nessuno puo' essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui e' stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non puo' essere inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso». (3) Per tale motivo, questo giudice rimettente ritiene la questione prospettata difforme da quella gia' affrontata nella sentenza della Corte costituzionale, 11 maggio 2017, n. 109 ove e' stata dichiarata l'inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale degli articoli 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell'art. 2, comma 2, della della legge 28 aprile 2014, n. 67) affermando il principio che nell'attivita' interpretativa, in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, solo dopo aver escluso la praticabilita' di un'interpretazione della norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, il giudice deve sollevare questione di legittimita' costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, comma 1 della Costituzione.