Il Tribunale ordinario di Siracusa, sezione penale,  in  funzione
di giudice monocratico, esaminati gli atti del procedimento penale n.
2462/14 r.g. Trib., n. 7003/13 R.G.N.R. nei confronti di  V.S.,  nato
ad ... il ..., imputato: 
        a) della contravvenzione di cui all'art. 116,  comma  13  del
C.d.s. perche' si poneva alla guida del motociclo ... tg. ...,  senza
avere conseguito la patente di guida. 
        b) Della contravvenzione di cui all'art.  75,  comma  1,  del
decreto legislativo n. 159/2011 perche', contravvenendo agli obblighi
della misura di prevenzione della  sorveglianza  speciale,  applicata
nei suoi confronti con decreto n. 36/2011 del Tribunale  di  Siracusa
del 20 maggio 2012 (proc. n.  60/10  Reg.  Mis.  Prev.),  violava  le
prescrizioni di vivere onestamente rispettando le  leggi,  in  quanto
commetteva il reato di cui al capo a). 
    Fatti commessi ad Avola (SR) il 22 gennaio 2013. 
I. Svolgimento del processo 
    Con decreto emesso dal pubblico ministero  del  8  novembre  2013
V.S. veniva citato a  giudizio  dinnanzi  al  Tribunale  di  Siracusa
all'udienza del 12 novembre 2014 ove la difesa chiedeva un rinvio per
valutare l'opportunita' di accedere a rito alternativo; veniva dunque
concesso  un  breve  rinvio,  previa  sospensione  dei   termini   di
prescrizione per  l'intera  durata  (pari  a  giorni  trentaquattro),
all'udienza del 16 dicembre 2014 anch'essa rinviata stante  l'assenza
del magistrato titolare. 
    Alla successiva udienza del  16  giugno  2015  veniva  aperto  il
dibattimento ed ammessi  i  mezzi  di  prova  richiesti,  il  giudice
rinviava all'udienza del 3  febbraio  2016  ove  veniva  disposta  la
rinnovazione delle formalita' dibattimentali ai sensi  dell'art.  525
del  codice  di  procedura  penale  stante  la  diversa  composizione
dell'organo giudicante e, dopo l'ammissione delle richieste di  prova
formulate da parte del pubblico  ministero  e  della  difesa,  veniva
disposto rinvio all'udienza del 6 giugno 2016 nel corso  della  quale
disponeva rinvio per istruttoria  all'udienza  del  7  dicembre  2016
rinviata, per assenza dei testi citati, alla successiva udienza del 3
maggio 2017 ove la difesa dell'imputato dichiarava  di  aderire  alla
astensione  dalla  celebrazione  delle   udienze   proclamata   dalle
associazioni di categoria; veniva dunque disposto  ulteriore  rinvio,
previa sospensione dei termini di prescrizione  per  l'intera  durata
(pari a giorni duecentotrentuno), all'udienza del  20  dicembre  2017
anch'essa rinviata stante l'assenza dei testi giustificati. 
    All'udienza del 20 giugno 2018, veniva disposta  la  rinnovazione
delle formalita' dibattimentali ai sensi dell'art. 525 del codice  di
procedura  penale  stante   la   diversa   composizione   dell'organo
giudicante e, dopo l'ammissione delle richieste di prova formulate da
parte del pubblico ministero e della difesa (la quale non prestava il
consenso alla rinnovazione mediante lettura), veniva disposto  rinvio
all'odierna udienza del 9 gennaio  2019  nel  corso  della  quale  il
giudice sollevava  questione  di  legittimita'  costituzionale  degli
articoli 8 e  9  del  decreto  legislativo  15  gennaio  2016,  n.  8
«Disposizioni in materia di depenalizzazione  a  norma  dell'art.  2,
comma 2, legge 28 aprile 2014, n. 67», ai sensi  e  per  gli  effetti
dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 
    Di seguito  si  intende  illustrare  la  prospetta  questione  di
illegittimita' costituzionale ed in particolare la sua: 
        A) non manifesta infondatezza alla specificate stregua  delle
norme costituzionali e convenzionali quivi appresso; 
        B)  rilevanza,  trattandosi  di   disposizioni,   della   cui
costituzionalita' si  dubita,  che  dovranno  necessariamente  essere
applicate nel giudizio a quo. 
    Come noto, in data 6  febbraio  2016  e'  entrato  in  vigore  il
decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 in attuazione dell'art.  2,
comma 2, della legge  delega  del  28  aprile  2014,  n.  67  recante
«disposizioni in materia di depenalizzazione». All'art. 1 comma 1 del
medesimo decreto vengono depenalizzate, per quello che in questa sede
interessa, tutte quelle violazioni per le quali e' prevista  la  sola
pena della multa o della ammenda tra cui  appunto  il  reato  di  cui
all'art. 116, comma 15 del decreto legislativo n. 285/1992. 
    La nuova disposizione prevede,  limitatamente  alla  condotta  di
guida senza patente (comma 5, lettera b),  l'applicazione  di  una  «
[...] sanzione  amministrativa  pecuniaria  da  euro  5.000  ad  euro
30.000». 
    L'art.  8,  comma  1,  del  predetto  decreto  dispone  che   «le
disposizioni del presente decreto che sostituiscono  sanzioni  penali
con  sanzioni  amministrative  si  applicano  anche  alle  violazioni
commesse anteriormente alla data di entrata  in  vigore  del  decreto
stesso [...]» mentre il successivo art.  9  che  «nei  casi  previsti
dall'art. 8, comma 1, l'autorita' giudiziaria, entro  novanta  giorni
dalla data di entrata in vigore  del  presente  decreto,  dispone  la
trasmissione all'autorita' amministrativa competente degli  atti  dei
procedimenti  penali  relativi  ai  reati  trasformati  in   illeciti
amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o  estinto  per
altra causa alla medesima data». 
(A) Non manifesta infondatezza della questione 
    La questione di legittimita' costituzionale e' non manifestamente
infondata  alla  stregua  dei  principi  e   criteri   costituzionali
fondamentali   e   delle   specifiche   disposizioni   della    carta
costituzionale infra individuate quali «norme parametro»  di  cui  si
denuncia la violazione  da  parte  della  norma  di  legge  ordinaria
sospettata di incostituzionalita'. 
I°-  Violazione  dell'art.  76  della  Costituzione.   Illegittimita'
costituzionale degli articoli 8 e 9 del decreto legislativo n. 8/2016
in relazione all'art. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67  -  Eccesso
di delega 
    i. Il  legislatore  delegato,  pur  consapevole  dell'assenza  di
un'espressa   delega   all'adozione   di   norme   transitorie,    ha
autonomamente ritenuto  di  introdurre  la  disciplina  di  cui  agli
articoli 8 e 9, «traendo decisiva ispirazione dalle  gia'  collaudate
disposizioni contenute nel citato decreto legislativo n. 507 del 1999
(articoli 100-102)» (cit. pag.  6  relazione  di  accompagnamento  al
decreto  recante  disposizioni  in  materia   di   depenalizzazione).
Infatti, le predette disposizioni ripercorrono quasi integralmente il
contenuto delle norme transitorie contenute nel  decreto  legislativo
n. 507/1999 («Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema
sanzionatorio, ai sensi dell'art. 1 della legge 25  giugno  1999,  n.
205»). 
    Ebbene, la scelta del legislatore delegato impone una riflessione
in quanto il decreto legislativo n. 507/1999 cui si fa riferimento e'
stato adottato in forza della legge n.  205/1999  che,  all'art.  16,
comma 1, lettera b), prevede espressamente la delega «ad  emanare  le
norme di  attuazione  delle  disposizioni  contenute  nella  presente
legge, le norme di coordinamento  con  tutte  le  altre  leggi  dello
Stato, nonche' le norme di carattere transitorio». 
    La legge n. 67/2014, invero, non prevede alcuna delega in materia
di disposizioni transitorie specificando, all'art. 2, comma 4  ultima
parte che «Nella predisposizione dei decreti legislativi  il  Governo
tiene conto delle eventuali  modificazioni  della  normativa  vigente
comunque intervenute fino al momento dell'esercizio della  delega.  I
decreti legislativi  di  cui  al  comma  1  contengono,  altresi'  le
disposizioni necessarie al coordinamento con altre norme  legislative
vigenti nella stessa materia». 
    Siamo dunque in presenza di una delega, ma per le sole  norme  di
coordinamento. 
    Manca invece una delega espressa in materia di norme transitorie,
necessaria per consentire deroghe alle disposizioni vigenti di  rango
legislativo. 
    ii. Constatata l'assenza nella legge n. 67/2014 della  previsione
di una disciplina transitoria, non si  puo'  non  ritenere  che  tale
mancanza debba essere interpretata come segno  di  una  volonta'  del
delegante di applicare la disciplina dell'art. 2 del codice penale  e
soprattutto dell'art. 1 della legge n. 689 del 1981 che  prevede,  in
materia  di  sanzioni  amministrative,  il  divieto  di  applicazione
retroattiva. Del resto, la stessa giurisprudenza di legittimita',  di
recente anche a sezioni unite, ha stabilito  che  «Nel  caso  in  cui
l'autorita' giudiziaria  pronunzi  sentenza  assolutoria  perche'  il
fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato non ha l'obbligo di
rimettere  gli  atti  all'autorita'   amministrativa   competente   a
sanzionare  l'illecito  amministrativo   allorquando   la   normativa
depenalizzatrice non contenga norme transitorie analoghe a quelle  di
cui agli articoli 40 e 41 della legge n. 689/1981 (depenalizzazione),
la cui operativita' e' limitata agli illeciti da essa depenalizzati e
non riguarda gli altri casi di  depenalizzazione»  (cit.  Cass.  pen.
Sez. Un., 29 marzo 2012, n. 25457). 
    Inoltre,  in  riferimento  ai  cosiddetti   decreti   legislativi
integrativi e correttivi di precedenti  decreti  delegati,  la  Corte
costituzionale, nel riconoscere l'ammissibilita' da un punto di vista
costituzionale, ha tuttavia precisato che cio' che conta e'  «che  si
intervenga solo in funzione di correzione o integrazione delle  norme
delegate gia' emanate,  e  non  gia'  in  funzione  di  un  esercizio
tardivo, per la prima volta, della  delega  "principale";  e  che  si
rispettino pienamente i medesimi principi e  criteri  direttivi  gia'
imposti per l'esercizio della  medesima  delega  "principale"»  (cfr.
cit. Corte costituzionale, n. 206/2001 (dep. 26 giugno 2001;  pub.  4
luglio 2001); cfr. Corte costituzionale n. 153/2014  (dep.  4  giugno
2014; pub. 11 giugno 2014). 
    Quindi, anche in riferimento  alla  ipotesi  delle  c.d.  deleghe
bifasiche, attraverso le quali il Governo viene  delegato,  entro  un
certo termine, a disporre una nuova disciplina ed  entro  un  termine
piu' lungo ad adottare eventuali  decreti  integrativi  e  correttivi
(come ad esempio avvenuto nella legge delega n. 67/2014, ex  art.  2,
comma 5), permane il limite della conformita'  della  disciplina  del
decreto delegato alle disposizioni  della  legge  delega,  senza  che
siano  introdotte  norme  innovative  rispetto  alle  previsioni   di
quest'ultima. 
    iii.  E'  comunque   vero   che,   come   stabilito   dal   Corte
costituzionale n. 47/2014,  e'  consentito  al  legislatore  delegato
esercitare una discrezionalita' che travalichi la delega conferita ma
cio' solo quando si  ponga  in  modo  non  divergente  rispetto  alle
finalita' che l'hanno determinata. 
    Nel caso di specie, istituendo un regime transitorio che  prevede
sanzioni amministrative pecuniarie di una certa entita' (si pensi  ad
esempio alle sanzioni pecuniarie previste dagli articoli 2  e  3  del
decreto legislativo n. 8/2016 che, in alcuni casi, arrivano  sino  ad
un importo pari ad euro 50.000,00=  ),  il  legislatore  finisce  per
contraddire la  stessa  ratio  della  legge  delega,  dichiaratamente
promulgata  «[...]  in  ossequio  ai  principi  di   frammentarieta',
offensivita' e sussidiarieta'  della  sanzione  penale»  (cit.  p.  1
relazione di accompagnamento). 
    Ebbene, paradossalmente, un imputato per il reato di guida  senza
patente (come nel caso di specie), a seguito dell'applicazione  della
disciplina amministrativa transitoria, subirebbe una  trattamento  in
concreto deteriore rispetto a quello  penale  di  cui  sarebbe  stato
eventualmente  destinatario  in  assenza  di  depenalizzazione  (tale
concetto verra' meglio sviluppato in seguito). 
    Quello che preme sottolineare in tale sede e' che, in assenza  di
delega espressa, appare quanto mai  dubbio  che  il  delegante  possa
intervenire con una  disciplina  che  sia  in  grado  di  coinvolgere
interessi e principi fondamentali,  anche  di  rango  costituzionale,
dato  che  ogni  sanzione  amministrativa,  in  applicazione  di   un
principio generale quale quello espresso dall'art. 1 della  legge  n.
689/1981, deve necessariamente informarsi al principio  di  legalita'
secondo   cui   nessuno   puo'   essere   assoggettato   a   sanzioni
amministrative se non in forza di una legge. 
    Il  decreto  legislativo   infatti,   operando   in   deroga   al
tradizionale  riparto  gerarchico  delle  fonti  di  produzione   che
attribuisce al Parlamento il potere legislativo, acquisisce efficacia
solo  qualora  si  muova  nel  rispetto  dei   «principi»,   «criteri
direttivi»  e  soltanto  «per  il  tempo  limitato»  e  per  «oggetti
definiti» di cui all'art. 76 della Costituzione. 
    Qualora il decreto operi al  di  fuori  di  tali  limiti,  dovra'
ritenersi  adottato  in  violazione  dello  stesso  art.   76   della
Costituzione, soprattutto qualora tale  atto  introduca  sanzioni  in
grado  di  incidere  (e  pesantemente  come  vedremo  a  breve),   su
situazioni giuridiche soggettive. 
II°  illegittimita'  costituzionale  dell'art.   8   e   9,   decreto
legislativo n. 8/2016 per violazione  dell'art.  25,  comma  2  della
Costituzione  e/o  dell'art.  117,  comma  1  della  Costituzione  in
relazione  alla  norma  interposta   espressa   dall'art.   7   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    i. In passato, si e' delineato un  nutrito  dibattito  in  ordine
all'ammissibilita' della trasmissione degli atti da parte del giudice
penale all'autorita' amministrativa, a seguito  di  una  sentenza  di
assoluzione perche' il fatto non costituisce piu' reato per  avvenuta
depenalizzazione nell'ipotesi in cui la normativa di riferimento  non
preveda alcuna disciplina transitoria. 
    Secondo un primo orientamento (ex  plurimis  Cass.  Sez.  Un,  16
marzo 1994, n. 7394, in C.e.d. n. 197698, a  cui  hanno  aderito  una
serie di pronunce successive.), occorre  escludere  valenza  generale
alle disposizioni transitorie di cui agli  articoli  40  e  41  della
legge n. 689 del 1981,  operanti,  invece,  solo  con  riguardo  agli
illeciti depenalizzati con la stessa legge. Occorre quindi affermare,
sempre secondo questo orientamento, l'inapplicabilita'  del  comma  4
dell'art. 2 del codice penale, sul rilievo che  si  devono  intendere
per disposizioni  «piu'  favorevoli  al  reo»  solo  quelle  operanti
all'interno di precetti esclusivamente penali. Le pronunzie che hanno
aderito all'orientamento in esame affermano  quindi  che  -  dato  il
principio di irretroattivita' dell'illecito  amministrativo,  sancito
dalla legge n. 689 del 1981, art. 1 - al venir  meno  della  sanzione
penale si accompagna di regola  la  impossibilita'  di  applicare  la
nuova sanzione amministrativa. 
    Secondo l'opposto orientamento (ex plurimis Cass. Pen. 25 gennaio
2006, n. 7180 in C.e.d., n. 233577) a seguito della trasformazione di
un illecito  penale  in  illecito  amministrativo  -  in  assenza  di
disciplina transitoria - deve sempre essere disposta la  trasmissione
degli atti all'autorita' amministrativa competente,  in  forza  della
disposizione di carattere generale di  cui  alla  legge  24  novembre
1981, n. 689, art.  41.  (1)  Cio'  in  quanto  gli  illeciti  penali
trasformati in illeciti amministrativi non possono restare  sottratti
a qualsiasi sanzione, ma in considerazione della ratio legis  che  e'
quella di attenuare, non gia' di eliminare, la sanzione per un  fatto
che rimane illecito - dovra'  trovare  comunque  applicazione  quella
amministrativa. 
    Il primo orientamento ha trovato conferma  nella  sentenza  Cass.
pen., Sez. un., 29 marzo 2012, n. 25457 (Cass.  pen.,  Sez.  un.,  29
marzo 2012, n. 25457, in dir. proc. 2012, p. 1211) - a cui  ha  fatto
seguito la recente Cass. pen. 9 settembre 2015, n. 44132 - con cui si
e' affermato che gli articoli 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 non
sono norme generali di inquadramento valide per tutti i  futuri  casi
di depenalizzazione e che il principio di retroattivita' della  legge
piu' favorevole, non essendo stato recepito dall'art. 1, legge n. 689
del 1981, non e'  estensibile  alla  disciplina  della  «successione»
dell'illecito amministrativo rispetto all'illecito penale. Per  poter
superare  l'autonomo  principio   d'irretroattivita',   sono   invece
necessarie  apposite  norme  affidate   alla   discrezionalita'   del
legislatore ordinario (pur  sempre  nel  rispetto  del  principio  di
ragionevolezza ex art. 3  della  Costituzione).  Ad  avviso  di  tale
orientamento quindi, non puo' essere condivisa la cd.  «teoria  della
persistenza dell'illecito» tra quello penale e quello amministrativo,
da considerarsi quest'ultimo come introdotto  ex  novo.  Inoltre,  in
caso di una nuova e diversa valutazione discrezionale del legislatore
non   sembra   possa   aprioristicamente   prospettarsi    una    non
giustificabile disparita' di trattamento in  violazione  dell'art.  3
della Costituzione per il solo fatto che coloro che hanno trasgredito
un determinato precetto penale rimangono esenti da qualsiasi sanzione
a seguito di depenalizzazione. 
    ii. Il  decreto  legislativo  n.  8/2016  delinea  una  specifica
disciplina transitoria che prevede l'applicazione  retroattiva  della
nuova sanzione amministrativa in  ipotesi  di  guida  senza  patente.
Sebbene la  questione  risulti  diversa  da  quella  esaminata  dalla
pregressa giurisprudenza (in questo  caso  e'  infatti  prevista  una
disciplina transitoria), questa dovra' comunque confrontarsi  con  un
orientamento  consolidato  in   seno   agli   organi   di   giustizia
internazionale che effettua una  distinzione  fattuale  sulla  natura
delle varie sanzioni. 
    La Corte europea dei diritti dell'uomo infatti, nell'applicazione
e interpretazione dei principi di legalita',  irretroattivita'  e  di
colpevolezza, espressi nell'art. 7, comma 1 della Convenzione, (2) ha
mutato la nozione di pena cosi' come stabilita nel nostro ordinamento
nazionale. 
    In particolare, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo ha individuato degli autonomi criteri di  qualificazione  e
definizione della nozione di materia penale, reato e  pena  (Engel  e
altri contro Paesi Bassi;  Grande  Stevens  ed  altri  contro  Italia
sentenza 4 marzo 2014,).  In  sostanza,  secondo  tale  orientamento,
viene introdotta una modalita' di individuazione della natura  penale
della   sanzione   di   carattere   sostanziale   e   non   meramente
formale-nozionistica  come  quella  assunta  nel  nostro  ordinamento
nazionale. Tali criteri sono: 
        a) qualificazione dell'illecito operata dal diritto  interno:
Tale qualificazione riveste pero' solo carattere formale e di  valore
relativo in quanto  la  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  deve
supervisionare sulla correttezza di  tale  qualificazione  alla  luce
degli altri fattori indicativi del carattere «penale»; 
        b) natura dell'illecito: deve essere  considerata  la  natura
sostanziale dell'illecito commesso, quindi, se si sia  di  fronte  ad
una condotta in violazione di una norma diretta alla protezione di un
ordinamento e della societa' o se  la  norma  tutela  beni  giuridici
della collettivita' in correlazione alle rispettive legislazioni  dei
diversi Stati contraenti. In linea di principio, vengono  considerate
penali le norme che, indirizzandosi ad una generalita' di destinatari
(cfr.  Anghel  c.  Romania,  sentenza  4  ottobre  2007),   risultano
caratterizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo; 
        c) gravita' della sanzione che impone di verificare l'entita'
della sanzione concretamente inflitta e le ripercussioni che essa  ha
per il soggetto che la subisce (cfr. Lauko c. Slovacchia, sentenza  2
settembre 1998). 
    In   sostanza,   il   rango    costituzionale    del    principio
d'irretroattivita' delle sanzioni punitive amministrative  presuppone
l'omogeneita'  della  natura  dell'illecito  penale   e   di   quello
(punitivo) amministrativo convergenti nell'identica «materia  penale»
come delineata, altresi', dalla giurisprudenza  della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo (si tratta di un concetto di omogeneita' che il
legislatore delegato ha bene in mente cosi' come si puo' vedere nella
stessa relazione di accompagnamento). 
    Caso emblematico nel quale si e' fatta applicazione dei  predetti
criteri e' quello deciso  dalla  sentenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo del  4  marzo  2014  (Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e della liberta'  fondamentali,  4
marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia) ove  i  ricorrenti,
dopo  essere  stati  sanzionati  con   l'applicazione   di   sanzioni
amministrative di carattere pecuniario dalla Consob, sono stati anche
rinviati  a  giudizio  per  gli  stessi  fatti,  puniti  dal  diritto
nazionale anche penalmente.  Ebbene  la  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, applicando i criteri elaborati dalla celebre sentenza  del
8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, ha affermato che  il
processo innanzi alla Consob e' di natura amministrativa  ma  che  le
sanzioni inflitte possono essere considerate  come  penali,  sia  per
l'eccessiva severita' delle stesse  che  per  le  loro  ripercussioni
sugli interessi del condannato. 
    Di fatti, la Corte ha affermato che le sanzioni amministrative  -
essendo dirette a garantire l'integrita' dei mercati finanziari  e  a
mantenere la fiducia del pubblico nella sicurezza delle  transazioni,
tutelando gli investitori e l'efficacia, la trasparenza e lo sviluppo
dei mercati borsistici - sono  destinate  a  salvaguardare  interessi
generali. 
    Inoltre, le sanzioni pecuniarie inflitte mirano essenzialmente  a
punire  per  impedire  la  recidiva,  perseguendo  cosi   uno   scopo
preventivo anziche' riparatorio di un danno di natura finanziaria. In
punto di gravita' della sanzione,  invece,  la  norma  amministrativa
prescrive la possibilita' di infliggere una sanzione pecuniaria  fino
ad euro 5.000.000, massimo che puo' addirittura essere  triplicato  o
elevato fino a dieci volte il prodotto o il profitto ottenuto  grazie
al comportamento illecito. 
    iii. L'applicazione dei cd. «criteri Engel»  sopra  esposti,  nel
caso di specie induce a ritenere che le nuove sanzioni  previste  dal
decreto legislativo n. 8/2015 e in particolare per quello che rileva,
quella di cui all'art. 1, nonostante siano  state  ideate  a  seguito
della depenalizzazione di  alcuni  reati  e  rechino  la  nozione  di
«sanzioni  amministrative»   -,   siano   sempre   qualificabili   in
riferimento a determinati aspetti -  quali  ad  esempio  la  ritenuta
applicabilita' dell'art. 25, comma 2 della Costituzione e dell'art. 7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
della liberta' fondamentali - sostanzialmente di natura «penale». 
    Per quanto riguarda la natura dell'illecito oggetto del  presente
scrutinio, si rileva che anche la sanzione di cui all'art. 1, comma 1
del decreto legislativo n. 8/2016 e' rivolta ad  una  generalita'  di
destinatari, essendo mossa da una finalita' general  preventiva  -  e
non certo riparatoria, essendo volta a punire chiunque circoli  senza
una patente di guida  valida  -  tesa  a  garantire  il  rispetto  di
interessi costituzionalmente garantiti quali la tutela della pubblica
sicurezza e della incolumita' pubblica, assicurati  dall'espletamento
di  una  procedura  amministrativa  volta  ad  attribuire  i   titoli
abilitativi alla guida solo a coloro i quali risultino idonei  da  un
punto di vista sia psico-fisico oltreche'  che  tecnico  (tramite  il
superamento di apposito esame di guida). 
    Per quanto attiene invece la gravita' della sanzione, si  osserva
che la sanzione amministrativa irrogabile  risulta  sicuramente  piu'
afflittiva  di  quella  in  concreto  applicabile  in   sede   penale
antecedentemente all'avvenuta depenalizzazione. In tale  ultima  sede
vi e' infatti la possibilita' per l'imputo di beneficiare di istituti
che consentirebbero la non punibilita' o la estinzione  del  reato  o
della pena scongiurando l'applicazione della sanzione. Si  tratta  ad
esempio dell'effetto dell'estinzione del reato  a  seguito  di  esito
positivo della sospensione del processo con messa alla prova (di  cui
agli articoli 168-bis, 168-ter e 168-quater del codice penale e  agli
articoli 464-bis,  464-ter,  464-quater,  464-quinquies,  464-sexies,
464-septies, 464-octies e 464-novies del codice di procedura  penale)
o della sospensione condizionale della pena (articoli  163  s.s.  del
codice penale) ovvero l'estinzione della pena  a  seguito  dell'esito
positivo della misura di affidamento in prova al servizio sociale (ex
art.  47,  legge  n.  354  del  26  luglio  1975)  ovvero  della  non
punibilita' per particolare tenuita'  del  fatto  (art.  131-bis  del
codice penale). Di fatti, in riferimento alla disciplina  di  ciascun
istituto sopra richiamato non si ravvede alcun elemento ostativo  per
la loro applicazione in relazione alla specifica tipologia  di  reato
contestato nel caso di specie. 
    Il  massimo  edittale  dell'art.  116,  comma  15   del   decreto
legislativo n. 285/1992 ante depenalizzazione e' compatibile  con  la
pena massima prevista per l'applicazione dell'art. 168-bis del codice
penale (che prevede una pena edittale detentiva sola  o  congiunta  a
quella  pecuniaria  non  superiore  nel  massimo  a  quattro   anni),
dell'art. 168 del codice penale  (che  prevede  una  pena  detentiva,
sola, congiunta o alternativa, concretamente inflitta non superiore a
due anni), dell'art. 131-bis del codice penale (che prevede una  pena
detentiva, sola o congiunta a quella pecuniaria,  non  superiore  nel
massimo a cinque anni) e dell'art. 47, legge n.  354  del  26  luglio
1975 (che prevede  una  pena  detentiva  concretamente  inflitta  non
superiore  a  tre  anni).  Al  fine   di   dimostrare   la   maggiore
afflittivita'  della  nuova  sanzione  amministrativa  rispetto  alla
previgente normativa penalistica - e quindi ai  fini  di  qualificare
l'art. 1, comma 1 e 5 del decreto legislativo n. 8/2016  quale  norma
sostanzialmente di carattere penale alla luce  dei  predetti  criteri
utilizzati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - si rileva  che
in   punto   di   trattamento   sanzionatorio,   la   relazione    di
accompagnamento asserisce che «Circa le nuove cornici edittali  delle
sanzioni amministrative, sia con riguardo ai reati del codice  penale
(di cui all'art. 2) che agli altri casi di depenalizzazione  (di  cui
all'art. 3), si evidenzia di aver fissato i seguenti limiti  -  salve
diverse specifiche previsioni sulla  base  di  un  criterio  generale
ispirato  a  principi  di  proporzione,  ragionevolezza  e   coerenza
sistematica» (cit. pagine 3 e 4 della relazione di accompagnamento). 
    Tale  trattamento  sanzionatorio  trova  applicazione  anche   in
riferimento a fatti commessi antecedentemente alla entrata in  vigore
del decreto  legislativo  n.  8/2016  seppur  con  il  «temperamento»
previsto dalla previsione indicata dall'art. 8, comma 3 del  predetto
decreto, secondo cui «Ai fatti commessi prima della data  di  entrata
in vigore del presente decreto non puo' essere applicata una sanzione
amministrativa pecuniaria per un importo superiore al  massimo  della
pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio
di ragguaglio di cui all'art. 135 del codice penale. A tali fatti non
si applicano le sanzioni  amministrative  accessorie  introdotte  dal
presente decreto, salvo che le  stesse  sostituiscano  corrispondenti
pene accessorie». 
    Nell'ottica del legislatore, la «valvola di sfogo»  in  grado  di
garantire la legittimita' costituzionale della normativa in  commento
risiede nel tentativo  di  evitare  che  la  sanzione  amministrativa
pecuniaria non sia superiore  a  quella  che  avrebbe  potuto  essere
applicata in sede  penale,  anche  in  applicazione  dei  criteri  di
ragguaglio di cui all'art. 135 del codice penale. 
    In sostanza, secondo il legislatore delegato, la  previsione  del
regime transitorio di cui  all'art.  8  del  decreto  legislativo  n.
8/2016 sarebbe perfettamente in  grado  di  salvaguardare  «[...]  il
principio  di  retroattivita'  in   mitius,   pienamente   realizzato
dall'applicazione  retroattiva   delle   piu'   favorevoli   sanzioni
amministrative in luogo di quelle originarie penali, sempre  che  sia
garantito, come fa il comma 3 dell'art. 8 del decreto, che  la  nuova
sanzione sia irrogata in un ammontare non  superiore  al  massimo  di
quella originaria» (cit. pag. 6 e 7 relazione di  accompagnamento  al
decreto legislativo n. 8/2016). 
    Cio' significa (peraltro il Governo ne' da  atto  nella  predetta
relazione), che il legislatore delegato e' perfettamente  consapevole
dell'orientamento «autonomista» formatasi in seno alla Corte  europea
dei diritti  dell'uomo  e  alla  Corte  costituzionale  (si  richiama
nuovamente la sentenza n. 104/2014 della  Consulta)  in  merito  alle
sanzioni cd. «intrinsecamente penali». 
    Tuttavia afferma anche che, muovendo  dal  concetto  di  identica
«materia  penale»,  la  depenalizzazione  di  reati  «degradati»   ad
illeciti amministrativi darebbe luogo ad una vicenda  sostanzialmente
di successione di leggi, nella quale dovrebbe trovare  attuazione  il
principio di retroattivita' in mitius in favore delle  ritenute  piu'
favorevoli sanzioni amministrative. Quindi, il  punto  dirimente,  e'
che il legislatore delegato ha considerato, ragionando esclusivamente
in  astratto,  le  nuove  sanzioni  amministrative  come  norme  piu'
favorevoli rispetto alle  originarie  penali,  sempre  che  la  nuova
sanzione sia irrogata in un ammontare non  superiore  al  massimo  di
quella originaria. 
    Ebbene, tali «accortezze» appaiono tutt'altro  che  in  grado  di
garantire il rispetto dei principi di  proporzionalita'  e  coerenza.
Nel caso di specie l'imputato,  in  caso  di  eventuale  sentenza  di
condanna, avrebbe potuto beneficiare di istituti quali  quello  della
sospensione condizionale della pena ovvero della non punibilita'  per
particolare tenuita' del fatto ovvero dell'affidamento  in  prova  al
servizio sociale che, in concreto, gli avrebbero  consentito  di  non
subire l'applicazione di alcuna pena per non punibilita' del fatto  o
estinzione del reato o della pena. 
    A seguito dell'avvenuta depenalizzazione, l'imputato si  trovera'
invece presumibilmente destinatario di una sanzione amministrativa di
almeno euro =5.000,00= , senza che il predetto decreto in materia  di
depenalizzazione introduca istituti «alternativi»  alla  applicazione
della sanzione pecuniaria. 
    Vale la pena di ricordare che la forte  potenzialita'  afflittiva
della pena ha, in diverse materie, oramai raggiunto anche  l'apparato
sanzionatorio  amministrativo.  La  stessa  Corte  costituzionale  ha
sottolineato il fatto che, nell'individuare beni giuridici meritevoli
di tutela, le sanzioni amministrative possono  avere  efficacia  pari
alle sanzioni penali, se non, a volte, anche maggiore. A mero  titolo
esemplificativo,  in  materia  ambientale,  ha  affermato   che   «la
repressione penale non costituisce, di per se', l'unico strumento  di
tutela di interessi come quello  ambientale,  ben  potendo  risultare
altrettanto  e  perfino  piu'   efficaci   altri   strumenti,   anche
sanzionatori [...]»  (cfr.  cit.  Corte  costituzionale  sentenza  n.
456/1998.   Successivamente,   nello   stesso   senso,   cfr.   Corte
costituzionale ordinanze numeri 193 e 267 del  1999;  86  e  150  del
2001). 
    Occorre, in sostanza, non limitarsi ad una  concezione  meramente
«quantitativa» del  rapporto  intercorrente  tra  sanzione  penale  e
sanzione amministrativa secondo cui l'illecito amministrativo reprime
fatti che arrecano una minore offesa  al  bene  tutelato  rispetto  a
quello penale ma anche e soprattutto, ad una dimensione «qualitativa»
che faccia specifico riferimento anche alla situazione processuale  e
al contesto concreto in cui tali sanzioni si collocano. 
    Di fatti, nel  caso  di  cui  ci  occupiamo,  l'operativita'  del
principio  di  retroattivita'  in  mitius  non  viene   assolutamente
garantita   in   concreto,   stante   l'assenza   nel    procedimento
sanzionatorio amministrativo di alcuni istituti operanti, invece,  in
sede penale che consentirebbero la  non  punibilita'  o  l'estinzione
della pena o del reato. In altri termini, l'applicazione della  nuova
sanzione amministrativa  comporterebbe,  in  concreto,  una  sanzione
maggiormente afflittiva di quella irrogabile in astratto all'imputato
qualora non fosse avvenuta alcuna depenalizzazione. 
    Del resto,  la  dizione  «della  pena  originariamente  inflitta»
riportata nell'art. 8, comma 3 del decreto legislativo n.  8/2016  si
riferisce alla sentenza penale o decreto di condanna definitivi e non
alla fattispecie in esame ove la declaratoria di assoluzione  perche'
il fatto non costituisce piu' reato ex art.  129  del  codice  penale
avviene solo in corso di giudizio. Nel decreto impugnato  non  si  fa
riferimento, oltre che alla pena inflitta, anche alla  pena  prevista
per il reato. In questo  caso  occorrera'  fare  riferimento,  almeno
operando una interpretazione costituzionalmente  orientata  del  gia'
citato art. 8,  comma  3,  solo  al  massimo  edittale  astrattamente
previsto dal reato depenalizzato. 
    In sostanza, l'unica interpretazione che consenta di conferire un
qualche significato al riferimento al «massimo della pena» e'  quella
che intende il participio «inflitta» come sinonimo di «comminata»  in
astratto dal  legislatore:  e'  sin  troppo  evidente,  infatti,  che
rispetto ad una pena ormai determinata in concreto non ha alcun senso
parlare di «massimo» o di  «minimo».  La  disposizione  non  operera'
dunque  in  chiave  limitativa  della  potesta'  sanzionatoria  della
pubblica amministrazione ogniqualvolta la pena  complessiva,  tenendo
conto del criterio di ragguaglio  di  cui  all'art.  135  del  codice
penale, superi i l'importo massimo irrogabile in sede amministrativa;
mentre avra' pratico effetto in tutti i casi in cui, anche  in  esito
alla conversione, la pena originaria  sia  inferiore  a  tale  ultimo
importo (nel caso di specie, l'originario reato  prevedeva  l'ammenda
nel massimo ad euro 9.032,00 per cui si deve ritenere che questo sia,
ai sensi dell'art. 8, comma 3 del decreto legislativo n. 8/2016  cosi
come sopra interpretato, l'importo massimo irrogabile anche  in  sede
amministrativa). 
    Ad ogni modo, ribadendo quanto gia' detto,  anche  qualora  fosse
irrogata una sanzione di  importo  non  superiore  ad  euro  9.032,00
(essendo questo  il  massimo  edittale  previsto  dal  reato  di  cui
all'art. 116, comma 15 Cod. Str.) risulterebbe comunque applicato  un
trattamento deteriore rispetto a quello che l'imputato avrebbe potuto
usufruire in sede penale stante l'applicabilita'  in  concreto  degli
istituti con finalita' «deflattive» piu' volte richiamati. 
    Da un  lato,  non  e'  irragionevole  pensare  che  una  sanzione
amministrativa pecuniaria contenuta nei limiti  di  cui  all'art.  8,
comma 3  del  decreto  legislativo  n.  8/2016  possa,  in  linea  di
principio, essere piu' favorevole rispetto ad una pena pecuniaria  di
pari importo, non  potendo  in  alcun  modo  essere  convertita  -  a
differenza di quest'ultima - in pena limitativa o, in ultima istanza,
privativa della liberta' personale in caso di inadempimento. 
    Dall'altro lato, pero', la concreta incidenza sul  patrimonio  di
una sanzione pecuniaria amministrativa da 5.000 a  9.032,00  (secondo
il  criterio  limitativo  di  cui  all'art.  8,  comma   3,   decreto
legislativo  n.  8/2016)  e'  certamente  assai  maggiore  di  quella
prodotta da una ammenda, pena la quale  non  avrebbe  avuto  concreta
incidenza sul patrimonio dell'imputato in quanto - alla  stregua  dei
parametri di cui all'art. 135 del codice penale - si sarebbe comunque
attestata al di sotto dei due anni di pena detentiva, essendo  quindi
del tutto prevedibile che al condannato fosse concessa la sospensione
condizionale - o  garantito  l'accesso  ad  altri  istituti  comunque
destinati a paralizzare l'esecuzione della pena pecuniaria. 
    Vi e' peraltro da aggiungere che colui il quale  ha  commesso  il
reato di  guida  senza  patente  -  ante  depenalizzazione  -  si  e'
determinato ad agire (ferma  ovviamente  l'eventuale  fondatezza  nel
merito dell'ipotesi di reato contestata) sulla base di  una  sanzione
penale e di un regime processuale penale che,  successivamente  al  6
febbraio 2016 (data di entrata in vigore del predetto  decreto),  non
risulta piu' applicabile. Con il decreto legislativo in  esame  varia
sia il regime sanzionatorio che quello processuale - dato che in sede
amministrativa non sono disciplinati istituti previsti invece in sede
penale che consentono la non punibilita' o l'estinzione del  reato  o
della pena. 
    Alla luce di quanto  sopra  detto  si  deve  ritenere  che,  alla
stregua della interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo, con riferimento alla nuova sanzione amministrativa di  cui
all'art. 1, commi 1 e 5  del  decreto  legislativo  n.  8/2016,  solo
formalmente  amministrativa  ma  di  fatto  penale,  debbano  trovare
applicazione i principi di  legalita'  e  di  irretroattivita'  delle
sanzioni penali. 
    iv. La Corte costituzionale con le sentenze gemelle n. 348 e  349
del 2007, e n. 239, 311 e 317 del 2009 ha affermato che «nel caso  in
cui si profili un contrasto tra una norma interna (nel caso di specie
gli articoli 8 e 9 del del decreto legislativo n. 8/2016) e una norma
della  Convenzione  europea,  il  giudice  nazionale   comune   deve,
pertanto, procedere ad una interpretazione  della  prima  conforme  a
quella convenzionale, fino a dove cio' sia consentito dal testo delle
disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i  normali  strumenti
di ermeneutica giuridica. Solo quando ritiene che non  sia  possibile
comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune  [...]
deve sollevare la questione di costituzionalita' con  riferimento  al
parametro dell'art. 117, primo comma della Costituzione, ovvero anche
dell'art. 10, primo comma, della Costituzione, ove si tratti  di  una
norma  convenzionale   ricognitiva   di   una   norma   del   diritto
internazionale generalmente riconosciuta». 
    Alla luce di tale  giurisprudenza  costituzionale,  assume  ruolo
centrale la sentenza  della  Consulta  n.  196  del  2010.  La  Corte
costituzionale ha infatti affermato che  dalla  giurisprudenza  della
Corte europea dei diritti  dell'uomo  formatasi  sull'interpretazione
degli articoli 6 e 7 della Convenzione europea  per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e  delle  liberta'  fondamentali  (si  veda  da
ultimo la decisione  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  Grande
Stevens comma Italia del 4  marzo  2014),  si  ricava  «il  principio
secondo il quale tutte  le  misure  di  carattere  punitivoafflittivo
devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale
in senso  stretto.  Detto  principio  e'  peraltro  desumibile  anche
dall'art. 25, secondo comma della  Costituzione,  "il  quale  -  data
l'ampiezza  della  sua  formulazione  ("Nessuno  puo'  essere  punito
[...]") - puo' essere interpretato  nel  senso  che  ogni  intervento
sanzionatorio, il quale non  abbia  prevalentemente  la  funzione  di
prevenzione criminale [...], e' applicabile soltanto se la legge  che
lo prevede risulti gia' vigente  al  momento  della  commissione  del
fatto sanzionato». 
    Di recente, la Consulta con la sentenza n. 104/2014 ha ribadito i
concetti sinora esposti dichiarando  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 18 della legge regionale Valle d'Aosta n. 5 del 2013 «nella
parte in cui stabilisce che le disposizioni modificate o inserite  da
tale legge, le quali prevedono sanzioni amministrative, si  applicano
ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore». Cio'
in  quanto  la  disposizione  censurata,   prevedendo   la   sanzione
amministrativa anche per comportamenti posti in essere  anteriormente
alla sua entrata in vigore, viola il  principio  di  irretroattivita'
sancito dall'art. 25 della Costituzione.  Tale  conclusione  e'  nata
traendo spunto proprio dalla gia' citata sentenza  n.  196  del  2010
della  Consulta  secondo   cui   tutte   le   misure   di   carattere
punitivo-afflittivo devono essere soggette alla  medesima  disciplina
della sanzione penale in senso stretto. 
    A tal proposito, sono di particolare interesse, ai  nostri  fini,
anche alcune recenti pronunce del tribunale amministrativo  regionale
del Lazio (TAR Lazio, Roma, sez. III-ter, 15  novembre  2012,  numeri
679/2013, 681/2013 e 682/2013, depositate in data 21  gennaio  2013),
che fanno esplicito riferimento all'art. 25  della  Costituzione  per
statuire l'illegittimita' di disposizioni sanzionatorie  retroattive.
Tale organo giurisdizionale, considerando che non puo' essere ammesso
nel nostro sistema ordinamentale un regime sanzionatorio  di  portata
afflittiva con efficacia  retroattiva,  il  quale,  oltre  ad  essere
contrario  ai  canoni  e  principi  che  sorreggono  i   procedimenti
sanzionatori, sarebbe, oltretutto, privo di alcun effetto deterrente,
ha affermato che «le sanzioni amministrative,  siano  esse  meramente
pecuniarie, ovvero  siano  dotate  di  un  carattere  afflittivo  che
prescinde dall'effetto ripristinatorio della  situazione  compromessa
dalla violazione e/o dalla eventuale riparazione dell'interesse leso,
hanno come scopo primario quello di  punire  il  contravventore,  nel
presupposto che non ripeta piu' la condotta antigiuridica e,  dunque,
devono essere  assoggettate  alle  regole  comuni  che  governano  le
sanzioni penali, a cominciare dal divieto di  retroattivita'  di  cui
all'art. 25 della Costituzione» (TAR Lazio, Roma,  sez.  III-ter,  21
gennaio 2013, n. 682). 
    Tali  principi   sono   ribaditi   anche   dalla   giurisprudenza
convenzionale.  Di  fatti,  dalla  ritenuta  natura  «penale»   della
sanzione  in  esame  discende,   ad   avviso   di   questo   giudice,
l'applicabilita' alla stessa del principio di legalita' penale di cui
all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Detto principio (cfr.  Corte
europea dei  diritti  dell'uomo  sentenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo del 17 settembre  2009  -  Ricorso  n.  10249/03  -
Scoppola c. Italia), occupa un  posto  fondamentale  nel  sistema  di
tutela della Convenzione, e deve essere interpretato e  applicato  in
modo da garantire una protezione effettiva contro le  azioni  penali,
le condanne e le sanzioni arbitrarie (S.W. e C.R. c. Regno Unito,  22
novembre 1995, §34 e §32 rispettivamente,  serie  A  numeri  335-B  e
335-C, e Kafkaris, gia' cit., §137). L'art. 7  §1  della  Convenzione
non si limita a vietare l'applicazione retroattiva del diritto penale
a svantaggio dell'imputato. Esso sancisce anche, piu' in generale, il
principio della legalita' dei delitti e delle  pene  (nullum  crimen,
nulla poena sine lege). Se, in particolare, e' vietato  estendere  il
campo  di   applicazione   dei   reati   esistenti   a   fatti   che,
precedentemente, non costituivano dei reati, esso impone  inoltre  di
non applicare la legge  penale  in  maniera  estensiva  a  svantaggio
dell'imputato, ad esempio per analogia (v., tra  le  altre,  Coëme  e
altri c. Belgio, numeri  32492/96,  32547/96,  32548/96,  33209/96  e
33210/96, §145, Convenzione europea per la salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali 2000-VII). 
    L'esigenza avvertita a che la legge definisca chiaramente i reati
e le pene che  li  reprimono  sara'  soddisfatta  quando  la  persona
sottoposta  a  giudizio  puo'  sapere,  a  partire  dal  testo  della
disposizione   pertinente   e,    se    necessario,    con    l'aiuto
dell'interpretazione che ne viene data dai tribunali,  quali  atti  e
omissioni implicano la  sua  responsabilita'  penale  (Kokkinakis  c.
Grecia, 25 maggio 1993, §52, serie A n.  260-A,  Achour,  gia'  cit.,
§41, e Sud Fondi S.r.l. e altri c.  Italia,  n.  75909/01,  §107,  20
gennaio 2009). 
    La Corte ha dunque il compito di assicurarsi che, nel momento  in
cui un imputato ha commesso  l'atto  che  ha  dato  luogo  all'azione
penale e alla condanna, esisteva una disposizione legale che  rendeva
l'atto punibile, e che la pena  imposta  non  ha  superato  i  limiti
fissati da tale disposizione (Coëme  e  altri,  gia'  cit.,  §145,  e
Achour, gia' cit., §43). 
    Tali principi, costituenti  l'interpretazione  della  Convenzione
fornita dalla Corte di Strasburgo, non possono essere  disattesi:  ed
invero «le norme della Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali [...]  devono  essere
applicate nel significato loro attribuito  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo» (sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del  2011,  n.  93
del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n. 39 del 2008, n. 349 e  n.  348
del 2007). 
    Ebbene, ad avviso del  giudice  a  quo  e  per  le  ragioni  gia'
evidenziate,  la  natura  di  garanzia  convenzionale  del  principio
irretroattivita'  della  legge  unitamente  alla  nozione  di  «pena»
contenuta  nell'art.  7  §l  della   Convenzione   e   all'inclusione
dell'illecito amministrativo e delle relative sanzioni nella  materia
penale ai sensi della Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,   comporta   il
contrasto con l'art. 25, comma 2 e con l'art. 117 della  Costituzione
- per violazione dei parametri interposti rappresentati  dall'art.  7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali - dell'art. 8, comma 1 e 3 e dell'art. 9,
comma  1  del  decreto  legislativo  n.  8/2016  che   impongono   la
trasmissione degli atti all'autorita' amministrativa  competente  per
l'eventuale irrogazione  della  sanzione  amministrativa  applicabile
anche per violazioni commesse anteriormente alla data di  entrata  in
vigore del predetto decreto. 
(B) Impossibilita' di  operare  una  interpretazione  conforme  degli
articoli 8 e 9 del decreto legislativo n. 8/2016 
    Nell'attivita' interpretativa che gli spetta ai  sensi  dell'art.
101, secondo comma, della  Costituzione,  il  giudice  comune  ha  il
dovere  di  evitare  violazioni  della  Convenzione  europea   e   di
applicarne le  disposizioni,  sulla  base  dei  principi  di  diritto
espressi dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specie quando  il
caso sia riconducibile a precedenti di quest'ultima (sentenze  n.  68
del 2017, n. 276 e n. 36 del 2016). In tale attivita', egli incontra,
tuttavia, il limite costituito dalla  presenza  di  una  legislazione
interna di contenuto  contrario  alla  Convenzione  europea  pere  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali:  in
un   caso   del   genere   verificata   l'impraticabilita'   di   una
interpretazione in senso convenzionalmente conforme,  e  non  potendo
disapplicare la  norma  interna,  ne'  farne  applicazione,  avendola
ritenuta  in  contrasto  con  la  Convenzione  e,  pertanto,  con  la
Costituzione, alla luce  di  quanto  disposto  dall'art.  117,  primo
comma, della Costituzione - deve sollevare questione di  legittimita'
costituzionale della norma interna, per violazione di tale  parametro
costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 150 del  2015,  n.  264  del
2012, n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009). 
    Ora,  la  disciplina  oggetto  di  scrutinio  da   cui   consegue
l'applicabilita' retroattiva delle nuove sanzioni amministrative  per
violazioni anteriormente commesse rispetto alla entrata in vigore del
decreto sulle depenalizzazioni da cui discende l'obbligo del  giudice
penale  di  trasmissione  degli  atti  all'autorita'   amministrativa
competente risulta essere, applicando i gia' citati  «criteri  Engel»
che consentono di estendere - qualora ne ricorrano i presupposti come
nel caso di specie alla luce di quanto gia' detto nel punto A) - alla
sanzione formalmente amministrativa (ma «sostanzialmente penale»  per
la Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti  dell'uomo  e
delle liberta'  fondamentali,  nell'interpretazione  della  Corte  di
Strasburgo) le garanzie convenzionali, appare porsi  manifestatamente
in contrasto sia con la previsione di cui all'art. 25, comma 2  della
Costituzione che con  l'art.  117,  comma  1  della  Costituzione  in
relazione all'art. 7 della Convenzione europea  per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
    Dalla chiara indicazione letterale  degli  articoli  8  e  9  del
decreto legislativo n.  8/2016,  appare  palese  l'impossibilita'  di
compiere  una  interpretazione   che   sia   costituzionalmente   che
convenzionalmente conforme in  grado  di  fugare  ogni  dubbio  sulla
manifesta fondatezza della questione di legittimita'  costituzionale.
In sostanza, l'art. 7 della Convenzione cosi' come interpretato dalla
stessa Corte,  non  puo'  non  scontrarsi  apertamente  con  il  dato
normativa interno di segno  contrario:  in  tale  caso  la  soluzione
dell'antinomia deve appunto essere rimessa alla Corte  costituzionale
secondo l'insegnamento delle sentenze gemelle del 2007. (3) 
(C) Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale 
    i. I procedimenti per i quali e' stata esercitata l'azione penale
alla data di entrata in  vigore  del  decreto  (dunque,  entro  il  6
febbraio 2016), quale quello di specie, sono  disciplinati  dall'art.
9, comma 3 secondo cui «Se l'azione penale e'  stata  esercitata,  il
giudice pronuncia, ai sensi dell'art. 129  del  codice  di  procedura
penale, sentenza inappellabile perche' il fatto non e' previsto dalla
legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a  norma  del
comma 1» che comporta, per  i  reati  di  cui  alla  depenalizzazione
prevista ai sensi dell'art. 1, tra cui quello di  cui  all'art.  116,
comma 15 Cod.  str.,  la  trasmissione  all'autorita'  amministrativa
competente. 
    A tal proposito, in  applicazione  dell'art.  8  del  decreto  in
commento, e' stato predisposto un peculiare  regime  transitorio  che
prevede l'applicazione della sanzione  amministrativa  anche  per  le
violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore  del
decreto stesso. 
    In virtu' della trasmissione degli atti da  parte  dell'Autorita'
giudiziaria all'Autorita' amministrativa, quest'ultima sara' tenuta a
notificare gli estremi della violazione all'odierno imputato entro il
termine di novanta giorni dalla data di ricezione. La rilevanza della
questione deriva dal fatto che, una volta dichiarata l'illegittimita'
costituzionale degli articoli 8 e/o  9  del  decreto  legislativo  n.
8/2016, l'imputato non  sara'  punibile  ne'  penalmente  (in  virtu'
dell'avvenuta depenalizzazione) ne' amministrativamente, non  essendo
piu' obbligatoria la trasmissione degli atti da parte  dell'Autorita'
giudiziaria a quella amministrativa  ne'  l'applicazione  retroattiva
delle nuove sanzioni amministrative. 
    ii. Diviene quindi fondamentale comprendere il  valore  effettivo
del  regime  transitorio  delineato  dall'art.   8,   decreto   sulle
depenalizzazioni e individuare lo spettro  applicativo  del  concetto
«definizione del giudizio» di cui all'art. 23, legge 11  marzo  1953,
n. 87, il cui comma  2,  secondo  periodo  dispone  che  «L'autorita'
giurisdizionale,  qualora  il  giudizio  non  possa  essere  definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale [...], dispone  l'immediata  trasmissione  degli  atti
alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso». 
    In dottrina si sono sviluppate due contrapposte tesi. Secondo  la
prima il concetto di rilevanza deve essere inteso  come  sinonimo  di
«mera applicabilita'»,  mentre  secondo  la  seconda,  nel  senso  di
«necessaria  influenza»   sul   giudizio   a   quo   anche   se   non
necessariamente sul risultato finale, essendo sufficiente l'esistenza
di un'influenza sul modo di decidere. 
    Detto cio', si  segnala  che  il  giudizio  puo'  dirsi  definito
soltanto dopo l'emissione di un provvedimento conclusivo  emesso  dal
giudice, nel caso in esame, una sentenza di  assoluzione  perche'  il
fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato, ex  art.  129  del
codice di procedura penale. Come prescritto dall'art  546,  comma  1,
lettera f) del codice di procedura  penale,  tra  i  requisiti  della
sentenza vi e' anche - pena nullita' (art. 546, comma 3 del codice di
procedura  penale)  -  il  dispositivo.  Ebbene,   e'   proprio   nel
dispositivo  che  viene   indicata   la   trasmissione   degli   atti
all'autorita'  amministrativa   competente   per   l'irrogazione   di
un'eventuale sanzione, proprio in forza dell'applicazione retroattiva
delle  disposizioni  del  decreto  sulle   depenalizzazioni.   Sembra
evidente, quindi, l'influenza del giudizio  di  costituzionalita'  su
quello   dal   quale   proviene   la   questione,   in   termini   di
pregiudizialita'.  Di  fatti,  gli  articoli  8  e  9   del   decreto
legislativo n. 8/2016  appaiono  rilevanti  nel  giudizio  penale  in
quanto  della  loro  applicazione  se  ne  da'  conto   proprio   nel
dispositivo che costituisce parte integrante  della  sentenza  emessa
dal giudice penale. La  definizione  del  giudizio  dipende,  quindi,
anche dall'applicazione necessaria delle predette  norme  in  quanto,
diversamente opinando, si otterrebbe un dispositivo diverso  (recante
la sola assoluzione perche' il fatto non costituisce piu' reato)  che
ostacolerebbe,  peraltro,  l'attuazione  delle  stesse  finalita'  di
politica legislativa propugnate dal legislatore delegato. 
    iii. Del resto, la rilevanza della prospetta questione  e'  stata
gia' affrontata dalla Consulta nella sentenza n.  109/2017  la  quale
esprimendosi per una pronuncia di  inammissibilita'  della  paventata
questione di illegittimita' costituzionale, in rapporto agli articoli
3, 25, comma 2, e 27 della Costituzione, degli articoli 8, commi 1  e
3, e 9 del decreto legislativo n. 8/2016, in riferimento all'avvenuta
depenalizzazione del delitto  di  omesso  versamento  delle  ritenute
previdenziali e assistenziali di cui  all'art.  2,  comma  1-bis  del
decreto-legge n. 463/1983 laddove l'importo omesso non sia  superiore
a 10.000 euro per ogni annualita', ha affermato  che,  sebbene  siano
inammissibili per difetto di rilevanza nel giudizio a quo le  censure
concernenti la misura della nuova sanzione amministrativa  pecuniaria
applicabile all'illecito depenalizzato in forza dell'art. 3, comma 6,
del medesimo decreto legislativo n. 8/2016 in quanto di  tale  ultima
norma il giudice a  quo  non  deve  evidentemente  fare  applicazione
(spettando semmai al  giudice  dell'opposizione  contro  la  sanzione
irrogata dall'autorita' amministrativa sollevare  alla  Corte  simili
questioni), tale difetto  di  rilevanza  non  sussiste,  invece,  per
quanto concerne la questione  relativa  all'applicazione  retroattiva
delle nuove sanzioni amministrative, dal momento che il giudice a quo
si trova sin d'ora a dover applicare l'art. 9 del  decreto,  che  gli
impone la trasmissione degli atti  all'autorita'  amministrativa  sul
presupposto - appunto - della retroattivita'  delle  nuove  sanzioni,
stabilita dal precedente art. 8. 
    iv. In ultimo si osserva  che  l'art.  9,  comma  1  del  decreto
legislativo n. 8/2016 precisa che  nei  casi  previsti  dall'art.  8,
comma 1 del medesimo decreto l'Autorita' giudiziaria,  entro  novanta
giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, disponga
la trasmissione all'autorita' amministrativa  competente  degli  atti
dei procedimenti penali relativi ai  reati  trasformati  in  illeciti
amministrativi, salvo che  il  reato,  alla  medesima  data,  risulti
prescritto o estinto per altra causa. 
    Nel caso di specie, il reato di cui al capo a) si e' consumato in
data 22 gennaio  2013  e  stante  la  sua  natura  contravvenzionale,
risulta essersi prescritto-conteggiando i periodi di sospensione  del
decorso della prescrizione disposti all'udienza del 12 novembre  2014
sino alla successiva udienza del 16 dicembre 2014 e all'udienza del 3
maggio 2017 sino alla successiva udienza del  20  dicembre  2017  per
complessivi giorni duecentosessantacinque - in data 14 ottobre 2018. 
    Tuttavia, come risulta dal tenore letterale del  gia'  richiamato
art. 9, comma 1  -  interpretazione  invero  confermata  anche  dalla
recente Cass. pen. Sez.  III,  sent.  16  giugno  2017,  n.  30201  -
l'obbligo  di  trasmissione  di  copia   degli   atti   all'Autorita'
amministrativa per l'irrogazione della  sanzione  in  relazione  alle
violazioni prescritte disciplinato dal decreto legislativo n.  8  del
2016, art. 8, comma 1 e art. 9, comma  3,  ricorre  solo  per  quelle
violazione per le quali la prescrizione  e'  maturata  alla  data  di
entrata in vigore (nel caso di specie il 6 febbraio 2016) del decreto
medesimo (cfr. art. 9 «l'autorita' giudiziaria, entro novanta  giorni
dalla data di entrata in vigore del presente decreto»). 
    Di fatti, se la causa estintiva sopravviene alla depenalizzazione
del fatto, il giudice deve dichiarare che questo non e' piu' previsto
dalla  legge  come  reato,  essendosi  verificata,  «in  primis»   la
decadenza dalla giurisdizione che  inibisce  ogni  diversa  pronuncia
(Sez. 3, n. 10238 del 25 ottobre 1996, Cantagalli, Rv. 206529) e cio'
a prescindere dal fatto se la  pronuncia  di  non  doversi  procedere
risulti in concreto piu' favorevole della declaratoria che  il  fatto
non e'  previsto  dalla  legge  come  reato  in  quanto  in  esito  a
quest'ultima la condotta rimarrebbe pur sempre perseguibile  in  sede
amministrativa (cfr. Cassazione Sez. 3, n. 20892 del 11 gennaio 2017,
Rv. 270513). 
    Ebbene i termini di prescrizione del reato di cui al capo a)  non
erano  decorsi  alla  data  dell'entrata  in   vigore   del   decreto
legislativo pertanto, in ragione di siffatta previsione  derogatoria,
anche nel caso di violazioni commesse in tempo anteriore  all'entrata
in vigore del decreto legislativo n. 8 del  2016  si  imporrebbe,  ai
sensi  dell'art.  9,  la  trasmissione   degli   atti   all'autorita'
amministrativa competente a sanzionare l'illecito  amministrativo  ai
sensi dell'art. 7 del  decreto  legislativo  n.  8/2016;  da  qui  la
ritenuta rilevanza della questione prospettata. 

(1) Il  primo  periodo  di  tale   disposizione,   rubricata   «Norme
    processuali transitorie», dispone che  «L'autorita'  giudiziaria,
    in  relazione  ai  procedimenti  penali  per  le  violazioni  non
    costituenti piu' reato, pendenti alla data di entrata  in  vigore
    della  presente  legge,  se  non  deve  pronunciare  decreto   di
    archiviazione  o  sentenza   di   proscioglimento,   dispone   la
    trasmissione degli atti all'autorita' competente». 

(2) Tale norma, al primo comma,  dispone  che  «Nessuno  puo'  essere
    condannato per una azione o una omissione che, al momento in  cui
    e' stata  commessa,  non  costituiva  reato  secondo  il  diritto
    interno o internazionale. Parimenti, non puo' essere inflitta una
    pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il  reato
    e' stato commesso». 

(3) Per tale motivo, questo giudice rimettente ritiene  la  questione
    prospettata difforme da quella  gia'  affrontata  nella  sentenza
    della Corte costituzionale, 11 maggio 2017, n. 109 ove  e'  stata
    dichiarata l'inammissibilita'  delle  questioni  di  legittimita'
    costituzionale degli articoli 8, commi 1 e 3,  e  9  del  decreto
    legislativo 15 gennaio 2016, n. 8  (Disposizioni  in  materia  di
    depenalizzazione, a norma dell'art. 2, comma 2, della della legge
    28 aprile 2014, n. 67) affermando il principio che nell'attivita'
    interpretativa,  in  presenza  di  un  apparente  contrasto   fra
    disposizioni  legislative  interne  ed  una  disposizione   della
    Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e
    delle liberta' fondamentali, anche quale interpretata dalla Corte
    di Strasburgo,  solo  dopo  aver  escluso  la  praticabilita'  di
    un'interpretazione della norma  interna  in  modo  conforme  alla
    disposizione internazionale, il giudice deve sollevare  questione
    di legittimita' costituzionale rispetto  al  parametro  dell'art.
    117, comma 1 della Costituzione.